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L’arte dei Macchiaioli nel piatto, un Contest finanziato da Fondazione Livorno Scuola Tessieri a Palazzo Strozzi racconta un’esperienza originale di formazione.

Fondazione Livorno Scuola Tessieri

A Palazzo Strozzi, allo Strozzi Bistrò, è il risultato Contest tenutosi alla Scuola Tessieri di alta formazione della ristorazione e ospitalità, sostenuto da Fondazione Livorno e rivolto a ragazzi meritevoli degli istituti alberghieri della provincia sul tema dell’arte dei Macchioli in tavola.

Nel cortile del Palazzo fiorentino, un luogo fortemente simbolico nel senso più ampio della cultura, è stato presentato il progetto Arte e cultura della cucina – L’estetica del piatto ispirata all’arte pittorica dei Macchiaioli, promosso da Fondazione Livorno in collaborazione con Scuola Tessieri – Atelier delle Arti Culinarie, centro d’eccellenza della formazione nel settore enogastronomico e dell’ospitalità. Il progetto è stato pensato per gli studenti senior di alcuni istituti di istruzione secondaria con indirizzo enogastronomico e ospitalità alberghiera con la realizzazione di un Contest alla Scuola Tessieri sul rapporto tra arte e cucina.

Oggi che la tavola è sempre più narrazione e territorialità il Contest ha invitato gli studenti concorrenti a realizzare un piatto, dolce o salato in piena libertà, ispirandosi a un’opera pittorica dei Macchiaioli, prima avanguardia europea dell’Ottocento, legati alla campagna e alle marine tra Livorno e Castiglioncello.

La chiave interpretativa, sull’idea della sinestesia del gusto, era declinare l’innovazione pittorica nel piatto lasciandosi guidare dal territorio e dalla stagionalità ed emozioni del quadro scelto. L’idea della giuria – formata dagli chef Stefano Cipollini, Christian Cecconi e Daniele Zazzeri, i giornalisti Ilaria Guidantoni e Giorgio Dracopulos – che ha valutato i nove piatti selezionati, oltre che a criteri di gusto, tecniche di preparazione e gestione dei tempi, si è focalizzata sulla rappresentazione non mera raffigurazione. Non tanto dunque una copia dal vero quanto un’interpretazione perché la cucina, come l’arte deve emozionare, solo in un secondo tempo informare, educare.

Quest’idea si sposa anche con i Macchiaioli, movimento nato al fiorentino Caffè Michelangelo nel 1862 – il termine, denigratorio, fu utilizzato dalla Gazzetta del popolo– che precede gli stessi Impressionisti: l’ispirazione è la vicinanza al vero ma oltre il Realismo, la riproduzione fedele e composta delle scuole d’arte e delle accademie.

La macchia infatti è l’impressione, il colore più del segno.

La loro pittura è caratterizzata dall’abbandono della linea e del punto poiché, secondo la poetica di questi artisti, non sono elementi presenti in natura. Già Eugène Delacroix, grande colorista, quando pensò ad un Vocabolario dell’arte nel 1857 evidenziò come in natura si vedono colori che diventano forme non contorni e disegni. In tal mondo la tavolozza ha dato origine ad un diverso ricettario. Tecnicamente i Macchiaioli prediligono un forte uso di chiaroscuri ottenuti con il cosiddetto specchio nero (annerito con del fumo), per cogliere meglio i contrasti chiaroscurali delle figure.

Quasi tutti gli allievi hanno scelto opere di Giovanni Fattori e tutti i dipinti sono olio su tela, che allude anche a uno degli ingredienti simbolo della cucina toscana.

I piatti realizzati, veri e propri dipinti edibili, sono stati valutati da una giuria d’eccezione che ha preso in esame la scelta degli ingredienti, la conoscenza delle tecniche di preparazione, il gusto e la presentazione estetica con particolare attenzione all’attinenza al dipinto scelto. Le preparazioni partono infatti dall’attenta osservazione dell’opera dei Macchiaioli. Tutte e tre le pietanze premiate si sono ispirate a vari dipinti di Giovanni Fattori. Il rosso sul mare, realizzato da Manuel Stacchini, si ispira all’opera Lungomare di Antignano; Matteo Orlandini è l’autore di Maremma a modo mio, che reinterpreta il noto dipinto Bovi al carro; il terzo ed ultimo piatto vincitore dal titolo Tra terra e mare è stato presentato da Davide Raciti ed è ispirato all’opera La libecciata.

Il piatto vincitore è stato firmato da Manuel Stacchini, Il rosso sul mare, ispirato a Lungomare d’Antignano di Giovanni Fattori, dipinto nel 1894 quando ha 69 anni. Durante l’estate, così come in quel giro di anni, è ospite nella villa dell’imprenditore e politico fiorentino Antonio Civelli ad Antignano, a sud di Livorno, per dare lezioni di pittura alla figlia Corinna, da lui ritratta un anno prima in La scolarina (1893, collezione privata). Il soggiorno ad Antignano e la realizzazione di questo dipinto sono documentati in una lettera del 31 luglio 1894 all’allieva Adele Galeotti, in cui Fattori riferisce le misure del quadro e ne sottolinea la fattura «dal vero».

Le colline livornesi sopra Antignano, inondate di sole, sono le vere protagoniste di questo dipinto. Il taglio obliquo del pendio che scende verso il mare divide nettamente in due la scena: sulla sinistra i caldi colori della terra si alternano ai verdi cangianti della vegetazione; sulla destra prevalgono i toni dell’azzurro del cielo e del mare, interrotto solo da piccole imbarcazioni scure.

“Da sempre la Fondazione sostiene i giovani – ha dichiarato Luciano Barsotti, Presidente di Fondazione Livorno – sia nel loro percorso scolastico che nella loro formazione professionale. Con questo contest, la mission culturale della Fondazione, intesta nella sua accezione più ampia di valorizzazione dell’arte da un lato e di sostegno all’educazione, istruzione e formazione dall’altro, si coniuga con la promozione dello sviluppo economico del nostro territorio”.

“La ‘Scuola Tessieri. Atelier delle arti culinarie’ è nata nel 2016 con l’obiettivo di trasmettere conoscenze e competenze ai giovani – ha raccontato Alessio Tessieri, Fondatore e Presidente della Scuola – che aspirano a lavorare nel settore della ristorazione e della pasticceria.

La scuola si propone di infondere anche tutta la passione, la curiosità e l’entusiasmo necessari per affrontare le sfide contemporanee.

Per rispondere alle esigenze del territorio e alla crescente domanda di professionisti nel settore, riteniamo fondamentale partire dalla motivazione e dalla passione dei giovani, coltivandole attraverso un percorso formativo che valorizzi talento e creatività, promuovendo al contempo eccellenza e innovazione in cucina. Questo progetto va esattamente in tale direzione”.

A cura di Giada Luni

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Foodspot, i cinque sensi a tavola. L’arte della cucina e del riciclo nello spazio milanese.

Foodspot

Ha compiuto dieci anni Foodspot a due passi da Romolo, uno spazio di gusto che definirlo una scuola di cucina è riduttivo. La cucina come arte, il libro del pittore Toulouse-Lautrec dal quale tutto è partito, un’ispirazione che Claudio Composti gallerista della mc2Gallery di Milano, curatore di mostre, docente ed esperto di fotografia d’arte, aveva già maturato a dire il vero ben prima.

Ai fornelli e alla conduzione Tommaso Fara, milanese, una famiglia originaria di Bosa in Sardegna, le cui origini si perdono nella Spagna rinascimentale, uno chef sui generis che nasce come restauratore di mobili antichi, passione presa dal nonno e un’attenzione particolare per i sistemi di cottura, un viaggio nello spazio e nel tempo come ostrano i suoi attrezzi di cucina.

Lo affianca Maria Giovanna Giugliano, artista che si affida alla fotografia sul tema del cibo e del rapporto con il corpo e che ha presentato una sequenza alla quale si è ispirata una serata. Il progetto in corso è Ordinary Pleasure, progetto vincitore della seconda edizione del Premio IRINOX SAVE THE FOOD in collaborazione con MIA Fair e Fiere di Parma che Maria Giovanna sta approfondendo con ricerche teorico-pratiche, indagando il rapporto tra uomo e natura attraverso il nutrimento, anche in senso metaforico. Approfondimento che coinvolge tra le varie esplorazioni un’esperienza di cucina all’Istituto Alberghiero di Alghero. L’ultimo esperimento è dedicato a dipingere il cibo con il cibo, attingendo direttamente al frigorifero, con l’idea del cibo di prossimità e quotidiano.

Nasce così ad Tomato Sun a partire da un piatto di spaghetti al pomodoro, come anche Fragole con panna o un’insalata della quale si utilizzano gli scarti, ad esempio le foglie non più fresche o da scartare utilizzate per colorare naturalmente come può avvenire con barbabietola e peperoni.

La puntata zero del progetto di serate conviviali ideato da Claudio Composti, a partire da una suggestione artistica, è stata con il fotografo ispano-argentino Patricio Reig, classe 1959, residente a Milano, i cui lavori sul cibo, accanto ai ritratti di donna tra i suoi temi centrali, anticati con il caffè. Il progetto poi con Tommaso Fara ha preso corpo anche in un senso ampio di sostenibilità a partire dall’economia circolare fino alla funzione sociale del cibo per rieducare al gusto persone che soffrono di disturbi alimentari, in particolare giovani anoressici con i quali si fa un percorso ad hoc in collaborazione con l’associazione culturale Nutrimente.

Il 6 giugno è invece la volta una cena in collaborazione con il Dipartimento Cervico Facciale dell’Istituto Europeo di Oncologia, dedicata alle persone che a causa di un tumore al cavo orale hanno problemi di percezione del gusto e di deglutizione per la quale sarà preparato un intero menu realizzato con gelatine che creano un gioco di scoperta e una nuova via alla socialità. L’idea è che l’arte sotto ogni forma possa curare.

In autunno è prevista invece una puntata realizzata con la Galleria di Torino Mucho Mas e l’artista tedesca di origine vietnamita che realizza foto, video e sculture con il cibo indagando il rapporto con la colonizzazione, Hiè’n Hoàng, con riflessi che si estendono per generazioni. Proprio nella mostra allestita nello spazio di Mucho Mas c’è un’installazione che contiene anche alcuni elementi del progetto interdisciplinare “Asia Bistro-Made in Rice”, in cui l’artista ha utilizzato il riso, ingrediente tipico del suo Paese d’origine e simbolo del concetto di ‘asiatico’ in Occidente, per affrontare la discriminazione che sottende il concetto di ‘immigrato buono’. Il cibo diventa metafora degli stereotipi legati alle culture asiatiche, una limitazione, una maschera. L’opera evidenzia il dibattito sul tema della politica dell’immigrazione in Germania e in Europa, e di come questa si ripercuota sulle persone generando traumi, sia a livello personale che nella comunità. Nello spazio di Foodspot viene esso in scena il concetto che ‘cucinare insieme fa bene’.

Chi è Claudio Composti

Classe 1973, è cresciuto nel mondo dell’arte, grazie al padre gallerista.

È curatore indipendente, fondatore e art director di mc2gallery a Milano, galleria specializzata in fotografia; talent scout di giovani artisti, che promuove con la piattaforma online Periscope Photoscouting o mettendoli in contatto con realtà e professionisti che possano svilupparne il percorso. Collabora come curatore con gallerie italiane, straniere, istituzioni o spazi pubblici e privati o musei. Cura progetti ad hoc per brand che si vogliono avvicinare all’arte. Ha curato mostre museali come la mostra Lisette Model: Street life al museo della fotografia CAMERA, di Torino (con un testo in catalogo) e al MART di Rovereto la mostra Cabaret Vienna. L’atelier fotografico Manassé, da un progetto di Chiara Spenuso (con un testo in catalogo).

Dal 2018 è Private Art Advisor per collezioni private e Corporate Collections per alcuni brand ed è direttore artistico della galleria/collezione privata dell’Hotel 5 stelle Plaza et de Russie di Viareggio, in provincia di Lucca.

Da anni partecipa come Folio Reviewer per diversi festival di fotografia italiani, come Fotografia Europea e internazionali come Les Rencontres de la Photographie di Arles, (Francia) o Face a la Mer, a Tangeri in Marocco.

Ha pubblicato un saggio per il libro Fermo immagine: Arte vita e mercato della Fotografia, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Chiara Spenuso (ed. Mimesis).

Chi è Tommaso Fara

Nasce nel 1971 a Milano da una famiglia molto numerosa e dai genitori eredita presto la passione per la cucina, cominciando già nella giovinezza a sperimentarla per parenti e amici. Si iscrive alla Laurea di Veterinaria seguendo la sua passione per gli animali ma realizza ben presto che le maggiori soddisfazioni gli arrivano dagli antichi mestieri che aveva iniziato a praticare nel tempo libero: restaurare mobili e cucinare.

Lascia gli studi e parte prima per Londra, poi Madrid e l’Andalusia. Tornato in Italia affina le tecniche imparate sul campo e si ritrova quasi per caso a scrivere libri di cucina, mantenendo sempre viva l’arte del restauro.

Nel 2005 pubblica il suo primo libro, Il cucchiaino caramellato (De Agostini). Nel 2006 intraprende, con l’amico skipper Simone Magni, una crociera gastronautica nei mari italiani alla scoperta di ricette tipiche del territorio, dando vita alla rubrica radiofonica “Cucina di bolina” su Radio 101.

Tra il 2007 e il 2008 cura otto volumi sulla cucina italiana per De Agostini. E nel 2010, per le Edizioni Gribaudo, pubblica in collaborazione con Lisa Casali il volume Cucina ad impatto (quasi) zero.

Infine, nel 2012, compare il suo ultimo libro, Diversamente cotto, un viaggio nel tempo e nello spazio tra le tecniche di cottura.

Nel 2014 realizza il suo nuovo progetto FOODSPOT, dove la convivialità fa da padrona di casa.

Chi è Maria Giovanna Giugliano

Nata nel 1995, è una food artist e visual storyteller. Ha completato i suoi studi fotografici a New York presso L’International Center of Photography e al momento si divide tra l’Italia e NYC.

La sua ricerca visiva Ordinary Pleasures, dedicata al rapporto tra Uomo e Natura attraverso il cibo, ha vinto la seconda edizione del premio Irinox Save the Food 2023.

Il progetto è stato esposto durante il MIA, lo Yeast Photofestival, e al momento è in mostra presso il Lenzburg Fotofestival.

È stato selezionato come progetto caso studio per l’imminente numero in uscita di Graphicus Mag, dedicato all’Eros.

Maria Giovanna sta lanciando il suo studio creativo Dulcis, dedicato alla comunicazione del piacere di nutrirsi con responsabilità e consapevolezza attraverso produzioni collaborative che coinvolgono arte e scienza.

A cura di Giada Luni

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A Como il lago protagonista di sapori e saperi. A Sottovoce dell’hotel Vista Palazzo Lago di Como l’atmosfera di una fiaba contemporanea.

hotel Vista Palazzo Lago

Nel cuore di Como, un affaccio unico e suggestivo sul lago, al Roof di un ingresso discreto, quello dell’hotel boutique Vista Palazzo Lago di Como – del Gruppo LarioHotels – dal fascino d’antan, elegante con una vista lago da tutte le camere e dal ristorante Sottovoce, un nome che dice l’essenza di questo luogo, dove la riservatezza è di casa.

Siamo a Palazzo Venezia, prestigioso edificio costruito nel 1870 in seguito alla demolizione di una tintoria e subito dopo l’attuale creazione di piazza Cavour ricavata nel 1869 dall’interramento dell’antico porto costruito dai Visconti nel XIV secolo e inadeguato per i piroscafi a vapore che andavano diffondendosi.

Caratterizzato da una facciata neogotica, fatto unico a Como, è caratteristico anche per l’orologio affisso sullo spigolo dell’edificio che risale al 1904, il più antico dei 120 che si trovano sul territorio comunale.

L’ambiente è raccolto con una parete interamente vetrata che si affaccia sull’acqua con alcune sedute sul balcone per godere l’en plein air e piccoli tavoli, con tavolinetti, un arredo sofisticato e fresco ad un tempo, e un salotto privé con libreria e divano che accoglie piacevolmente e i tavoli vestiti di tovaglie realizzate ad hoc da Rivolta Carmignani.

Il lago è il vero protagonista, nella vista, nel piatto e nel racconto.

Lo chef Stefano Mattara ha fatto una scelta coraggiosa e decisa che conferma e rilancia mettendo al centro della proposta il pesce locale e rendendolo gourmet. Uno stile che sposa il territorio, scelta rafforzata dalla selezione di piccoli produttori e di una stagionalità vissuta, non decisa a priori sul calendario, che serve a declinare i piatti in carta aggiornandoli con quello che il mercato propone. orientandosi sulla territorialità con una vocazione al pesce di lago e premiando la stagionalità del momento per declinare i piatti.

Per enfatizzare il racconto, la proposta, che lascia la possibilità di mangiare alla carta, attingendo dalle varie antologie, si articola fondamentalmente in menu degustazioni, percorsi di narrazione ad esempio con i classici dello chef o più sperimentale per palati gourmet o il Green che viene incontro a nuove esigenze del rapporto con il cibo sempre più attendo alla sostenibilità, al gusto del vegetale.

Vera novità il menu Experience servito a sorpresa all’ospite che viene omaggiato con un libro ricordo con i piatti più significativi e le leggende del Lago che li hanno ispirati, Storie Sottovoce. Ingredienti e storie di uno dei laghi più famosi del mondo come l’antica leggenda del Lariosauro che in realtà è esistito davvero, un rettile lacustre estintosi oltre 200 milioni di anni fa e sul quale si favoleggiando avvisamenti relativamente recenti.

Tra i tanti misteri il Fiumelatte, un fiume, il fiume più corto d’Italia, incastonato tra le vecchie abitazioni un tempo dei pescatori, lungo la Statale 36 in direzione di Varenna. Con i suoi 250 metri, le cui acque impetuose che sembrano simili alla schiuma del latte, appaiono solo il 25 marzo quando escono da una fenditura della montagna.

Sul territorio c’è anche uno dei cosiddetti Ponti del Diavolo, chiamati così per la maestria e la rapidità nel costruirli che non sembravano essere opera dell’uomo. Il ponte di Lezzeno è stato costruito tra il 1911 e il 1917 e il Sottovoce lo ricorda con un piatto piccante.

E poi c’è il Cannone di Brunate chiamato anche Cannone di Mezzogiorno installato nel 1912 sullo spiazzo della Cantoniera lungo la funicolare Como-Brunate e l’Isola Comacina, piccola in mezzo al lago, forse nel punto più bello, ricca di storia dalle prime testimonianze che attestano una costruzione di epoca romana; distrutta poi nel 1169 dall’Imperatore per essersi schierata con Milano contro Como.

Fu poi a lungo disabitata. Intorno al 1920 l’isola venne affidata all’Accademia di Brera e realizzò delle Case per artisti fra il 1937 e il 1940, una reinterpretazione razionalista dell’architettura vernacolare lariana, ancor oggi utilizzate per brevi soggiorni da artisti.

Il nostro viaggio è guidato a quattro mani dallo chef e dalla competenza divertita di Cristiano Mariani, maestro nella ricerca di chicche, piccoli produttori e prodotti mai scontati.

Dopo alcune sfiziose entrée accompagnate da un bicchiere prezioso, per brindare a un incontro: con Champagne Gosset, Gran Rosé Brut; per antipasto Salmerino, salsa al pino mugo, porro brasato e roccia effervescente, gradevole e stuzzicante per pulire la bocca e l’abbinamento ben riuscito è con un Sauvignon blanc, Vette (con i vitigni a 500 etri sul livello del mare) del 2022 che conserva una grande freschezza. Immancabile il Risotto Carnaroli Riserva San Massimo con peperoni rossi e alborelle affumicate, terra di olive e perle piccanti, servito con cucchiai piccoli, tocco di attenzione per le signore. Il matrimonio è con Molmenti Costaripa del 2018, vino prodotto sulla costa lombarda del Lago di Garda realizzato con pressatura a goccia, molto soffice da uve di Marzemino, Groppello, Barbera e Sangiovese che sa unire freschezza e morbidezza con sentori burroso.

Si prosegue con il Pesce gatto cbt, olio al prezzemolo con brodo di Katsuobushi, pakchoi, cavolo cinese e polvere di liquirizia.

Un pesce gustoso non autoctono inserito nel Lario per la pesca sportiva e che poi è diventato invasivo nonché un problema perché vorace, qualcosa di analogo al granchio blu.

Così viene spesso pescato ‘forzatamente’ e gettato quando invece può diventare un ottimo piatto. L’abbinamento è con Bacca di La Costa, un Verdese della Brianza lecchese, prodotto singolare che fa 13 giorni di macerazione con le bucce, quindi la fermentazione e al termine un anno in barrique.

Si tratta di un vino originale, locale, del quale l’azienda produce solo 500 bottiglie l’anno e che ha caratteristiche paragonabili a quelle delle uve rosse.

Per finire una piccola antologia di dessert che sposa le diverse tipologie di gusto, dal goloso Pane e “Nutella”, un gianduia artigianale; l’intrigante miele locale con tamarindo e olive, un ingrediente che non ci si aspetta per il dolce.

Tra le signature del ristorante Rivo Gin, con la selezione di un prodotto autoctono e il più possibile artigianale, con la raccolta a mano delle bacche. Infine un assoluto all’arancia, dove il frutto è protagonista assoluto e si gioca con consistenze diverse, dalla spuma al sorbetto al frutto seccato.

Molto gradevole per quest’ultimo l’abbinamento con un Sauternes (Sauvignon blanc, Sémillon e Muscadelle) Chateau de Rieussec 2019 che ha una grande freschezza e note di zeste di agrume.

Giada Luni

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Al Castello di Albola il vino sposa la cultura. Nel Chianti Classico aspettando la nuova edizione di Dialoghi paralleli.

castello di albola

Il vino è sempre più il filo che disegna la trama di un’attività economica con un risvolto ad ampio spettro culturale e al Castello di Albola, a due passi da Radda in Chianti, nella parte orientale del Chianti Classico, si è attenti a bilanciare la produzione vinicola, il valore del marchio, e la ricettività dove al centro c’è sempre l’idea dell’esperienza e della degustazione. Tutto ruota dunque intorno ai vigneti che diventano un palcoscenico per manifestazioni culturali variegate.

Qui infatti il vino è espressione forte del territorio e nelle etichette ne racconta la storia ma il vino resta protagonista anche del percorso di degustazione e di visita del borgo.

Non si parla infatti di un ristorante ma di uno spazio dove il cibo si cucina intorno ad una passeggiata nel vino con due proposte diverse. Insomma non si sceglie tra due menu degustazione ma tra due degustazioni di vino.

La storia in tal senso fa da guida.

Albola è un piccolo borgo i cui primi insediamenti risalgono al Medioevo – la Torre e il Cassero, del XII secolo – mentre la villa padronale, che è identificativa del luogo, presente nelle etichette, con la chiesetta tuttora consacrata e il giardino elegante con le statue, quasi un unicum nella zona, sono di epoca rinascimentale. Proprietà degli Acciaioli che gli hanno conferito questo volto, è passata nel tempo dalle mani di diverse famiglie nobili, quali i Samminiati, i Pazzi e in ultimo il principe Giovanni Ginori Conti dal quale la famiglia Zonin, l’ha acquistata nel 1979, segnando l’entrata di Albola nel Gruppo Zonin 1821.

La zona di Castello di Albola è ufficialmente menzionata come “terra vocata alla viticoltura” in un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, che testimonia l’acquisizione della proprietà da parte degli Acciaiuoli nel 1480, firmato da Niccolò Acciaioli. Alla fine del ‘400 Lodovico Acciaiuoli, che aspirava ad espandere i possedimenti chiantigiani essendo un “insigne dottore cittadino e avvocato fiorentino”, fonda di fatto il possedimento di Pian d’Albola come lo conosciamo oggi.

L’origine di Albola, lì dove la Pesa ha le sue sorgenti, però sfuma nel mito della civiltà protovillanoviana ed è certo che il toponimo abbia origine etrusca. Le prime fondi della storia di Albola legate alla cultura vitivinicola si trovano nel Dizionario fisico geografico del Granducato di Toscana (1841) di Emanule Repetti, importante un geografo, storico e naturalista italiano, che cita: “Chiamasi propriamente Albola una piaggia accreditata per i suoi vigneti, dai quali si ottengono forse i migliori vini del Chianti.” In realtà di Albola si parla molto prima e questo territorio venne citato per la prima volta in documenti risalenti all’XI secolo: in un documento datato 1010 l’Arcivescovo di Milano Arnolfo II concesse a un tale Gerardo l’affitto per la coltivazione di dieci mansi di proprietà della chiesa milanese. La diocesi tenne in possesso queste terre per circa tre secoli. Poi se ne conosce la dipendenza dalla Badia di Coltibuono.

Questa in sintesi la storia di un piccolo gioiello nei secoli che oggi con vigneti che vanno da un’altitudine di 450 metri sul livello del mare al 680 – per questo che i vini prodotti in questa Tenuta sono definiti Wines of Altitude – e si estendono su un territorio di 900 ettari di cui 110 vitati (ben 100 ettari DOCG), attualmente diretto da Alessandro Gallo, Enologo dell’azienda – che si avvale della consulenza enologica di Giuseppe Caviola – un piemontese del Monferrato che da vent’anni si è trasferito in Toscana.

Nato con il vino nelle vene, visto che il nonno produceva vino ad Acqui Terme, dove tuttora mantiene una piccola produzione familiare, è cresciuto con la passione per la vigna prima che per la cantina e ha studiato alla Scuola enologica Alma, per quindi si è laureato in chimica a Torino.

Nel 2004 l’incontro con Zonin è una scintilla che incendia l’animo di Alessandro e lo porta a trasferirsi tra i cipressi diventando amministratore di una società del Gruppo.

Il Castello di Albola gode dell’altitudine che soprattutto con i cambiamenti climatici sta diventando un vantaggio per la vigna – qui si coltiva soprattutto Sangiovese, il principe di Toscana, su 100 ettari, Chardonnay e Cabernet Sauvignon – e per gli ospiti di quello che possiamo considerare un albergo diffuso e che ambisce ad essere un borgo diffuso dove attualmente si contano 25mila presenze all’anno.

L’attività ha il cuore nella produzione che vede Sangiovese in purezza; Chardonnay di altura (Poggio Le Fate), una bella sorpresa con una freschezza che sorprende e bilancia la morbidezza e l’ampiezza del naso che non diventa stucchevole; un Super Tuscan singolare, l’Acciaiolo, in omaggio alla storia, Cabernet Sauvignon, bella struttura e profondità. Non poteva mancare nell’antologia il cuore della toscanità con cinque etichette di Chianti Classico, rispettivamente Classico Annata, Riserva e tre single vineyard, quali Solatìo, un nome di spessore, Santa Caterina e Marangole, solo per il Castello, non in distribuzione.

L’anima e il sogno di Castello di Albola sono rappresentati, come accennato, dai percorsi di degustazione e intrattenimento culturale di ampio respiro.

Quest’ultimo progetto è partito nel 2020 ancora in piena pandemia con una certa diversificazione, da concerti di musica leggera a concerti di musica classica con l’Accademia di Musica di Siena, a spettacoli teatrali (prossimamente uno spettacolo di Ginevra Fenyes e di Vittorio Pettinato) a proiezioni cinematografiche abbinate a menu tematici a mostre di pittura allestite nella barricaia, nelle cantine storiche sotterranee. Dialoghi paralleliè in tal senso un titolo emblematico di due mondi che si sfiorano, fatti di passione, di sogno e di artigianato, quello del vino e dell’arte.

Il concetto esprime una profonda chiave di interpretazione della contemporaneità: sono “Dialoghi Paralleli” tutte quelle conversazioni, diverse tra loro, che nel loro percorso si susseguono senza mai perdere la propria unicità; tutti quei confronti che grazie alla propria vicinanza si arricchiscono ma non disperdono la voce del proprio interlocutore. La prossimità continua data dal parallelismo, qualunque esso sia, è simbolo di rispetto, reciprocità ed apertura.

La mancanza di intersezione, tipica dei parallelismi, ha un forte significato simbolico: non è mancanza di incontro ma confronto costante lungo tutto il cammino.

Nella scorsa edizione ha visto protagonisti l’artista di Certaldo, il paese di Giovanni Boccaccio, Fabio Calvetti il cui filo rosso nella ricerca sono l’attesa, l’assenza, i silenzi dell’anima, uno spazio vuoto proli fico di domande e un artista albanese, Armand Xhomo, che ha lavorato come scenografo in vari teatri e ha svolto il ruolo di grafico pubblicitario per un’importante azienda; due personalità che hanno in comune un’idea di pittura saldamente ancorata ai valori formali ed espressivi della figurazione. “Mentre Calvetti, infatti, si è concentrato sulla dimensione soggettiva e interiore della pittura – scrive Daniela Pronestì che ha curato il testo critico del Catalogo della mostra – con un linguaggio dai toni intimisti, meditativi, talvolta anche melanconici, e una tavolozza che alterna tinte scure e terragne a bianchi lattiginosi e rossi vermigli, Xhomo, al contrario, manifesta un’attitudine creativa più “energica”, vitalistica, vocata all’impeto del gesto pittorico, con un ribollire di colori a colmare lo spazio della rappresentazione e un continuo fluire di visioni che spaziano dall’umano al ferino.”

L’edizione 2024 che vedrà due artisti francesi – i nomi sono ancora riservati – inaugura il 7 settembre prossimo e resterà allestita fino al 31 dicembre, promuovendo un dialogo internazionale ma ancora top secret sulle firme.

Come il vino del Chianti è un ambasciatore della Toscana nel mondo, non solo per il gusto quant’anche per lo stile e la vita legata alla campagna e alla dimensione di sostenibilità, cara al Castello di Albola, così la regione diventa il palcoscenico dell’arte internazionale che da sempre ha trovato a Firenze e nei suoi dintorni una culla di civiltà e di ispirazione.

La prossima tappa sarà nella tenuta della stessa proprietà, Rocca di Monte Massi, nell’entroterra di Castiglione della Pescaia, in Maremma, dove accanto all’attività vinicola Vermentino e ai vitigni internazionali ha dato vita ad un Museo agricolo che raccoglie tremila ‘pezzi’.

Giada Luni

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Uguali ma Diversi, in bianco e nero- due vitigni declinati in modo diverso alla tavola di VinoPeople.

VinoPeople

Ultimi due appuntamenti dell’anno per il progetto “Uguali ma Diversi” dell’Associazione VinoPeople – reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Chianti Banca, che condivide la missione di promuovere la cultura enogastronomica territoriale e valorizzare le eccellenze del territorio – che declina il vitigno in tre stili diverse con la presenza di tre Maison di produzione dello stesso territorio. Così per il Nobile Pinot Nero, il racconto di tre espressioni toscane che ha visto in tavola “Il Borgo” di Borgo Macereto di Dicomano, nella zona di Firenze, “Bosco Bruno” di Vallepicciola di Pievasciata nel Comune di Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena e “Monteprimo” di Bacco del Monte di Vicchio del Mugello, in provincia di Firenze, in abbinamento ai piatti preparati dallo chef Michele Berlendis del ristorante Riva Kitchen di Firenze.

Gli eventi, organizzati dall’associazione VinoPeople e condotti da Sara Cintelli e Milko Chilleri, hanno offerto ai partecipanti la possibilità di scoprire un vitigno di origine francese noto per essere delicato e non avere rese generose che diventa, oggi più che mai una scommessa; e il pregiato vitigno piemontese, Timorasso.

L’azienda Borgo Macereto coltiva diverse varietà di uva, tra cui il Sangiovese, che è la punta di diamante per la produzione dei Chianti Rufina, ma anche il Pinot Nero, introdotto con entusiasmo. Oltre a queste, coltiva anche altre varietà di uva bianca, come il Riesling, il Moscato e il Sauvignon Blanc. “I nostri vini, racconta Ilaria Chimenti, spaziano quindi dalle classiche etichette toscane ai bianchi aromatici, offrendo una gamma diversificata che soddisfi i gusti più esigenti. ciò che renda unici i nostri vini sia la loro capacità di raccontare la storia del territorio da cui provengono.”

E il pinot nero, più di altri vitigni ha questa capacità e caratteristica. “Il Borgo 2020” celebra il Pinot Nero, adattato magnificamente al Mugello, con una delicata nota violacea e aromi di ciliegia, cuoio, cioccolato bianco e mora, dall’impatto morbido. Perfetto con selvaggina, formaggi leggeri e anatra all’arancia.

La raccolta manuale in cassette assicura la selezione migliore. Le uve vengono poi vinificate in tini di rovere francese e affinate in tonneaux e barriques per 12 mesi, seguite da 6 mesi di affinamento in bottiglia prima della commercializzazione.

Vallepicciola affonda la sua storia negli anni Novanta quando la famiglia Bolfo ha intrapreso l’affascinante impresa di restaurare le rovine di un antico convento a Pievasciata, nel comune di Castelnuovo Berardenga. Da quei vigneti, ora parte dell’Hotel 5 stelle Le Fontanelle, nasce Vallepicciola. Su una proprietà di 265 ettari, circondata da boschi e ulivi, coltiviamo con maestria 107 ettari di vitigni d’eccellenza: Sangiovese, Pinot Nero, Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Chardonnay. L’impegno è chiaro, come spiega Alberto Colombo, AD Vallepicciola: “produciamo vini di qualità che celebrano il territorio toscano.

Offriamo esperienze in cantina personalizzate, trasformando ogni degustazione in un momento esclusivo. Nei nostri vini si riflette il nostro impegno quotidiano nella valorizzazione del terroir. Con passione e rispetto, perseguiamo una produzione sostenibile e d’eccellenza.” In particolare, “Bosco Bruno 2022” mostra come il Pinot Nero nel Chianti Classico trovi il suo perfetto connubio con il terroir.

La vendemmia avviene nella prima decade di settembre dal vigneto Boscobruno, con una resa di 45 quintali per ettaro. Situato a 480 metri sul livello del mare, il terreno offre condizioni ottimali.

Dopo la fermentazione in vasche di cemento per 15 giorni, segue la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese usate. L’invecchiamento in barrique dura circa 12 mesi, seguito da 6-8 mesi in bottiglia. Il vino si presenta rubino, luminoso, con profumi di rose rosse, fragoline di bosco, cassis e spezie. I tannini sono setosi e avvolgenti.

La storia di Bacco del Monte inizia nel 1985, quando la famiglia Bacci si trasferisce al “Monte” e pianta una piccola vigna per uso familiare.

Nel 2016, i genitori con l’aiuto dei figli, decidono di ampliare e piantare due ettari di Pinot Nero, fondando l’azienda Bacco del Monte a Vicchio, paese natale di Giotto e del Beato Angelico.

L’azienda produce un solo vino, il Monteprimo, un IGT 100% Pinot Nero, vinificato in acciaio e affinato in barriques di rovere francese. “Si utilizzano esclusivamente tappi di sughero naturale, confermando l’impegno per la qualità e la tradizione,” racconta la figlia nonché enologa dell’azienda, Silvia Bacci, Bacco del Monte, che ha presentato il “Monteprimo 2021

“Dopo una vendemmia interamente manuale, si procede alla diraspatura, utilizzando anche il 20% di grappoli interi.

Segue la fermentazione alcolica e il riposo in legno, in barriques di rovere francese. Il vino non viene filtrato e viene imbottigliato direttamente in cantina, utilizzando tappi di sughero naturale monopezzo, analizzati con naso elettronico. Il nostro obiettivo è di presentare un vino con il minimo trattamento enologico possibile.

Il risultato è un Pinot Nero strutturato, con sentori caldi di frutta matura, macchia e vaniglia al naso, e un palato robusto, ideale con piatti più ricchi e sostanziosi” – conclude Silvia.

Il Timorasso, che conclude il ciclo degli incontri, originario delle colline del Tortonese, vanta una storia antica che risale al Medioevo. Tuttavia, nel XIX secolo ha subito un declino prima per la fillossera poi, nel secolo breve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, a causa della preferenza per vitigni più produttivi.

Fortunatamente, negli Anni Ottanta, alcuni viticoltori pionieri hanno riportato in auge questo vitigno rustico, rivelando il suo grande potenziale, in particolare grazie a Walter Massa a partire dal 1987, il padre della riscoperta del Timorasso.

Questo vitigno si adatta perfettamente ai terreni calcarei e argillosi del Tortonese, producendo grappoli grandi e compatti con acini medio-grandi dalla buccia spessa e dorata.

Pur avendo una resa in vino relativamente bassa, la qualità è eccezionale e i vini sono bianchi strutturati e complessi, in grado di invecchiare per molti anni tanto che questo vitigno viene definito “un rosso travestito da bianco”.

Al di là delle definizioni è evidente la sua capacità grazie ad un’elevata acidità di essere longevo e di evolversi nel tempo; di raccontare un territorio, un autoctono più autoctono di altri visto che a mala pena riesce a dare frutti nel resto del Piemonte.

Non è trasportabile e questo ha creato un forte senso di comunità tra i produttori e il racconto notevolmente identitario della zona.

La sua particolarità con uno spiccato sentore minerale e ampia suggestione fruttata comincia già dal nome di etimologia incerta.

Luigi Bovere, Cascina La Ghersa e La Colombera sono tra le più apprezzate aziende produttrici di questo iconico vino del territorio conosciuto anche come Derthona, “Derthona”, l’antico nome della città da cui ha avuto origine, villaggio ligure ma di espansione romana.

Verticalità in primo piano per l’Azienda Agricola Luigi Bovere, con un sentore di pietra focaia e idrocarburo che domina sulle altre componenti; un sentore di fieno che è quasi paglia e qualcosa di ferroso in bocca per l’annata 2020.

L’annata calda 2019 la si avverte in bocca in un vino ammiccante, quello di Cascina La Ghersa, il cui titolare ci ha raccontato di essere straniero in terra di Timorasso.

La Colombera, azienda nata nel 1937, là dove c’era un anfiteatro romano, ha presentato il vino più strutturato, annata 2017, con una buona armonia tra le componenti sia all’olfattiva sia alla gustativa, vino ‘caldo’, deciso.

In abbinamento per la presentazione Ricotta del Mugello condita su crema di piselli, piselli bruciati e i loro germogli; Lasagna in bianco con melanzane e scamorza affumicata su pesto di basilico; Filetto di maiale di grigio casentinese marinato, cotto a bassa temperatura e poi alla brace su crema di zucchine, pomodoro al forno e fondo bruno di carne; Panna cotta al vin santo con croccante di mandorle.

A conclusione il Vinsanto del Chianti “Collefresco” dell’azienda Poggiotondo di Lorenzo Massart, proveniente dalla zona del Casentino, in provincia di Arezzo. L’azienda, fondata nel 1850 da Ada Lapini e continuata da successori come Antonio Cutini e Guglielmo Massart, si estende su 54 ettari tra Subbiano ed Arezzo, con tre località: Poggiotondo, Le Rancole e Valloni. I vigneti di Poggiotondo, tutti a denominazione Chianti, coprono 4,20 ettari di terreno galestro e sono coltivati con il sistema a cordone speronato.

Dai vecchi vigneti del 1970, restano solo Vigna Grande e Vigna Aldo (circa 3 ettari) con sangiovese (70%), canaiolo, trebbiano e malvasia bianca. Nel 2002 abbiamo aggiunto Vigna Tata (solo sangiovese) e nel 2006 Vigna dei Meli (sangiovese, canaiolo e malvasia bianca).

Il vinsanto Collefresco 2010 nasce dauve Trebbiano e Malvasia, coltivate a 350 metri di altitudine, vinificate in caratelli di diverse dimensioni per cinque anni prima dell’imbottigliamento. Il colore ambrato, si distingue dalle tonalità caramellate artificiali diffuse in alcuni vini. Al naso datteri, melata, miele di acacia ed una bella trama balsamica e di liquirizia.

Al palato, la dolcezza si manifesta in una cremosa intensità, misurata e per nulla stucchevole. Un gusto lungo, lineare e composto, che si evolve in sfumature cangianti.

A cura di Giada Luni

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Food & Beverage

Sapore di mare a Livorno.

Livorno

Livorno, città di porto, crocevia di culture, irrequieta e dal forte sapore di mare, non evoca la vacanza, come invece la vicina Viareggio, sebbene stia diventando uno scalo croceristico sempre più importante, con ventimila sbarchi il primo fine settimana di maggio.

Il mare a Livorno è la sua origine, costruita relativamente tardi come una città di fondazione per dare un porto ai Medici.

Così questo tratto di mar Tirreno è la sua ragione, il suo terreno di sfida per l’eccellenza, basti pensare all’Accademia Navale, la sua condanna, quella di non essere percepita come città d’arte e cultura, il suo respiro ampio, aperto all’incontro che però porta qualche difetto nell’eleganza.

Qualcosa sta cambiando anche proprio sul fronte della cucina.

Un tempo la Toscana era associata soprattutto a una cultura di terra nei sapori, fatta appunto eccezione per Viareggio, mentre la ristorazione in Versilia arriverà più tardi e Livorno con il suo famoso Cacciucco o il Baccalà alla livornese era l’emblema della cucina marinara, ma anche tanti piatti meno conosciuti alcuni dei quali legati ad esempio alla cucina ebraica o a quella delle tante comunità che vi lavoravano o ne erano frequentatrici.

A un certo punto questa ‘cucina povera’, lo street food ante litteram, la torta di farina di ceci e tutto quel mondo di cucina popolare e di tradizione, economica in parte è scomparso, in parte è stato un po’ snaturato dal turismo, che in città in realtà non è così preponderante.

Se la città non ha punte di eccellenza, legate soprattutto a uno stile gourmet sofisticato, a volte anche all’eccesso nel prezzo, sta consolidando una cucina di sperimentazione legata al territorio che non snatura i luoghi ed è fatta da appassionati.

Abbiamo provato due luoghi che ci sembra valgano la pena per diverse ragioni, prima tra tutte la materia prima, una buona realizzazione e anche un servizio accurato, pieno di entusiasmo e con la voglia di ricerca.

A pranzo siamo andati all’Ardenza, scendendo verso sud, percorrendo quel bel lungomare, dieci chilometri di mare in città, passando davanti alla terrazza Mascagni, agli storici Bagni Pancaldi, all’Accademia Navale, un’eccellenza mondiale ancora troppo poco conosciuta, e così mentre alla nostra destra si apre l’orizzonte blu del mare e le isole in lontananza, a sinistra sfilando le costruzioni Liberty.

Allontanandosi poco dal mare si trova il Ciglieri, un piccolo locale che è stato preso in mano da Bernardo Bastiani, Chef e Patron, con una bella mano e una timidezza che non guasta in un mondo in cui tutti si sentono delle star. L’ambiente è molto semplice e raffinato, moderno con tocchi vintage sui toni del grigio e qualche ceramica antica, pennellate di arancio e un giardinetto per la bella stagione.

Non sono tanti posti e l’idea è di un lavoro sartoriale a misura di cliente.

In sala Andrea Corongiu, minuta e scattante che in punta di piedi svela la sua passione e la voglia di non smettere di imparare. Il cognome allude alla sua origine sarda e porta con sé una bella esperienza da Uliassi a Senigallia, con una buona conoscenza del vino e soprattutto il desiderio di fare un lavoro di ricerca che si nota nelle ‘chicche’ che ricerca sul territorio senza smettere di guardare oltre confine, soprattutto con incursioni sul territorio francese.

La cucina è quasi tutta rivolta al mare, anche se è possibile qualche richiesta di mare, quasi sempre ad esempio in stagione c’è il tartufo, anche perché chi frequenta il locale che sono sempre più degli habitué desidera sentirsi al mare.

Gli ingredienti sono una materia prima di qualità, l’attenzione alla stagionalità che diventa uno stimolo per arricchire le preparazioni, la creatività di un impiattamento originale e suggestivo che rivisita i piatti più semplici.

Si inizia con una piccola entrée offerta dallo chef che è un uovo non uovo, servito nel suo contenitore di cartone, in realtà una ceramica con crema di patata affumicata e salsa alla curcuma.

Tra i primi interessante un risotto ai frutti di mare con katsuobushi che crea un effetto visivo suggestivo come un’opera d’arte cinetica perché il calore fa muovere queste ‘ali di mare’.

Tra i secondi si può scegliere una frittura, servita come una tempura o un’ombrina cotta a bassa temperatura quindi passata alla piastra e servita su una crema Parmantier con un asparago cotto e crudo che a seconda del momento dell’anno può essere sostituito da un’altra verdura. I dolci cambiano spesso ma spettacolare La Moka, la rivisitazione del tiramisù servito nella macchinetta del caffè o anche una crema pasticcera che abbiamo assaggiato con pop corn, del crumble molto leggero e frutti di bosco, dove l’armonia è il bilanciamento anche tattile tra morbidezza e croccantezza, dolcezza e acidità, toni avvolgenti e sentori verticali.

L’accompagnamento con il vino è un viaggio perché la carta è in movimento con tappe sempre sicure ma non scontate sul territorio con una vocazione soprattutto ai bianchi per l’abbinamento con il pesce.

Non manca però la voglia di andare alla scoperta di prodotti particolari, anche qualche scommessa come un Riesling del Castello del Trebbio nel Chianti Rufina e lo sconfinamento soprattutto sul territorio francese.

A cena ci siamo concessi una passeggiata a Porta a mare dove le architetture dei cantieri storici Orlando dell’Ottocento oggi sono diventati un punto di incontro molto vivace. In darsena, nella parte del sotto porto, dove c’erano i rimessaggi delle barche, una sosta vale la pena a La Persiana, un locale che si affaccia sul mare, pied dans l’eau, dove a breve sarà realizzato il porto turistico e al quale già ora si può arrivare in barca. Si può cenare al tramonto en plein air o anche sotto le arcate – siamo nel Rione Borgo dei Cappuccini – che offrono un buon riparo sia al freddo sia al caldo. In origine, come accennato, un rimessaggio di barche, una storia più che centenaria che Giovanni Neri, giornalista inviato di guerra appassionato di cucina – lo ha ereditato dal nonno- ha trasformato in un ristorante gourmet le cui redini sono in mano al figlio Alberto, un passato da sportivo, una formazione nella fotografia e Sommelier molto fine. Lo stile ‘sapore di mare’ è quello della tradizione, un focus sul territorio unito all’innovazione soprattutto con cotture a bassa temperatura.

Il nome La Persiana richiama la tipica bevanda ‘femminile’ livornese, realizzata con anice, menta e sassolino per la parte alcolica che fa il paio con il più virile Ponce, entrambi in carta.

Molto caratteristico all’interno, curato in ogni dettaglio, con volte a mattoni e tavoli in marmo verde. Gli individuali sono ispirati al territorio con coralli, la cui lavorazione ha una lunga tradizione a Livorno, e carte nautiche.

Si può cominciare con ostriche e crudi; tra gli antipasti il Carpaccio di ombrina affumicato con verdure; fra i primi il raviolone con uovo fondente, pesce spada, punte di asparagi e bisque a freddo; poi il carrello dei pesci con scelta volutamente retrò; o il cacciucco con le 5 C; o i tentacoli di polpo alla galiciana.

Tra i dolci, tutti fatti in casa, Schiacciata briaca elbana con gelato di produzione propria ai frutti rossi. La cantina dedicata soprattutto al territorio e spazia lungo la costa dalla Liguria fino alla Maremma per navigare verso l’Elba, piena di curiosità. Uno spazio è lasciato ad alcuni grandi classici dal Prosecco al Chianti per il pubblico più internazionale e di passaggio.

La carta presenta anche buone bollicine e qualche selezione francese originale con la scelta di vitigni e Maison particolari. Il servizio è familiare quanto basta, vivace e attento alle variazioni chieste dal cliente. Interessante la presentazione e anche la scelta dei piatti.

Alberto Neri, timoniere de La Persiana, diplomato al Liceo Scientifico Federigo Enriques di Livorno, per dieci anni è stato giocatore di rugby militando in diverse squadre di Serie A. Sommelier Fisar, alterna la professione di modello per case di moda all’attività come titolare del Ristorante.  

Ciglieri

Via Giuseppe Ravizza, 43

0586508194

Chiuso da martedì a domenica solo a cena; sabato e domenica anche pranzo

La Persiana

Scali Adriano Novi Lena 38

Alberto Neri +393277743863

Luglio e agosto sempre aperto solo la sera; settembre, ottobre, maggio e giugno venerdì-domenica: pranzo e cena; lunedì-giovedì solo la sera; novembre-aprile: giovedì solo la sera; venerdì-domenica pranzo e cena.

Giada Luni

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eccellenze italianeFood & Beverage

Cioccolato e vino, un amore insolito che si rinnova nel tempo. Al Vinitaly il Fervolato, figlio di Noalya e Marco Caprai.

Marco Caprai

Presentato un prodotto unico al mondo il primo cioccolato fermentato con il mosto in questo caso il Sagrantino di Marco Caprai. All’origine l’amicizia tra Alessio Tessieri, titolare di Noalya il cioccolato Coltivato, Azienda di Ponsacco in provincia di Pisa, e Marco Caprai dell’omonima azienda vinicola umbra.

Una passione comune per i prodotti della terra e la scommessa di rilanciare qualcosa che rischiava l’estinzione, la varietà di cacao criollo quello usato nella fattispecie “Criollo di Merida” comunemente chiamato Criollo Merideño e il vitigno autoctono Sagrantino, ma che condividono altresì basse rese che li rendono poco appetibili per i contadini.

Osservando le caratteristiche del cioccolato e del vino e notando molti punti in comune è nata la curiosità da parte dei due produttori di unire la fermentazione che con molta dedizione e sperimentazione, nonché investimenti, ha portato alla nascita del Fervolato, neologismo da ‘fervere’, ricordando l’energia della fermentazione.

La fermentazione iniziale del cioccolato viene fermata e riprende spontaneamente a contatto con la fermentazione in atto delle uve che diventa così un processo elevato al cubo.

È importante sottolineare che non si tratta di un’infusione o della creazione di un cioccolato al vino ma di una genesi assolutamente originale. L’eredità genetica che il vino trasmette al cioccolato non è solo nei sentori ma nella capacità di evolvere nel tempo che è straordinaria ed è un’esperienza sensoriale nuova.

Abbiamo infatti avuto l’occasione di assaggiare il Fervolato due mesi fa nelle tre tipologie, rispettivamente prodotte in acciaio, anfora e rovere e quest’ultimo ci ha regalato una speziatura significativa e una decisa avvolgenza mentre l’anfora appariva più ‘fredda’.

È impressionante come passato il tempo l’anfora ci restituisca la complessità dell’incontro e del territorio mentre il legno comincia a prevalere e a far uscire la dolcezza.

Aspettiamo prossimamente di riassaggiare il cioccolato in acciaio che donando freschezza conserva un’ originarietà maggiore ma potrebbe arrivare una sorpresa. Inoltre con una tendenza sempre più spiccata dei vini ad essere gastronomici, sperimentare nuovi cibi e creare potenziali abbinamenti creativi – e il cioccolato viene considerato dai Sommelier quasi una negazione – apre scenari interessanti anche sotto il profilo economico oltre che sensoriale.

Quest’ultimo aspetto d’altronde risponde all’orientamento dell’aspetto della narrazione che è sempre più importante nel consumo a tavola.

A cura di Giada Luni

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eccellenze italianeFood & Beverage

Al Vinitaly Marchesi Frescobaldi festeggia 10 anni di Alìe.

Alìe Frescobaldi

Dieci anni del Vino Rosé Alìe, una data festeggiata con enfasi da Marchesi Frescobaldi all’edizione 2024 del Vinitaly perché sono le prime dieci vendemmie della Tenuta Ammiraglia, acquisita nel 2011, nella terra del Morellino di Scansano, in piena Maremma dove si sente forte la vicinanza del mare, a soli quindici chilometri. L’importanza di questo prodotto, sottolineano in azienda, sta nel fatto che Frescobaldi è stato un pioniere di quello che poi sarebbe diventato un trend.

Ancora un decennio fa infatti si parlava soprattutto di ‘rosato’. In questo caso il blend stesso è una scommessa, il matrimonio tra il vitigno internazionale Syrah e il toscano Vermentino, suggerimento indovinato dell’enologo Niccolò D’Afflitto, non a caso con una lunga esperienza francese, che consente tra l’altro l’ottenimento di un colore rosa tenue, delicato come la ninfa del mare alla quale allude, grazie alla presenza del vitigno locale che funge da stabilizzatore del colore. La veste del vino e del prodotto sposano il racconto mitologico di una terra toscana insolita nella percezione.

La bottiglia ricorda quelle francesi e l’icona è un ramo di corallo con una serie di bicchieri dedicati con un testo in serigrafia che si muove sul calice come un’onda raccontando versi ispirati alla figura mitologica con un testo elaborato all’interno dell’azienda.

Il mare non è solo un’evocazione narrativa quanto una componente essenziale del gusto ben oltre la sapidità che conferisce al vino. Il clima mitigato dalle acque del Tirreno consente alle uve una maturazione graduale che conferisce un assetto polifenolico con questo colore cipriato, che si conserva nel tempo diventando metafora della conservazione della storia e della tradizione che incontra la voglia di sperimentare e di dar libero spazio alla creatività.

Al gusto la freschezza con sentori di botaniche e una nota spiccata di pesca, della quale si sente la buccia, si intreccia alla mineralità del terroir in un vino che fa solo acciaio, pronto da bere, già sul mercato da settembre.

A cura di Giada Luni

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Food & Beverage

Lini 910, le bollicine come un accompagnamento musicale.

Lini 910

Al Vinitaly 2024 a Verona abbiamo incontrato l’azienda di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, Lini 910, oggi alla quarta generazione, fondata appunto nel 1910, una delle prime realtà italiane a spumantizzare con il metodo tradizionale in Italia. un’intuizione del nonno che non solo si aprì con lo sguardo oltre confine là dove era arrivato solo qualche piemontese ma aveva scommesso in un territorio noto per il Lambrusco e poco altro.

Gettando il cuore oltre l’ostacolo oggi la casa di produzione ha un’esperienza consolidata con un bel ventaglio di prodotti, tanto da aver meritato l’ospitalità nel Padiglione del Trentino dove protagonista è la spumantistica, segnatamente il metodo classico. L’azienda porta in Fiera due novità che ben rappresentano le tendenze della spumantizzazione italiana che oggi cerca freschezza e complessità insieme, grazie a una lunga maturazione sui lieviti – nel caso di Lini 910 spesso lunghissima – e un basso residuo zuccherino.

Soprattutto il pubblico più giovane che si è in parte disaffezionato al vino per privilegiare birra e mixology, cerca una semplice complessità. In particolare i vini della Maison vogliono essere, in linea con il nuovo stile della stessa Champagne, essere gastronomici e di accompagnamento: per usare una metafora musicale, l’idea non è di essere il testo o la melodia ma la base musicale, come ci ha raccontato Alessio Lini, una formazione da avvocato e una grande cultura musicale che lo ha portato ad unire la tradizione classica alla sperimentazione, il rispetto del pentagramma e il diritto all’improvvisazione, per la quale occorre uno studio ancora superiore.

Lo stile sobrio e contemporaneo della comunicazione, rivolta in particolare al mercato americano, si sposa con il bianco e nero di tutta la linea e la ‘i’ finale del cognome che si può leggere come il numero uno davanti a 910 a completare la data di fondazione della casa vinicola.

“La nostra ricerca è nel segno della sartorialità – ha continuato Lini – cercando non una cuvée sempre uguale a se stessa, spesso interpretata quale sinonimo di qualità, quanto una coerenza con lo spirito del marchio che per prima cosa vuol far sta bene il consumatore; da cui un basso tenore alcolico e zuccherino.”

L’eleganza è per Lini 910 soprattutto nel segno del togliere, senza nessuna ridondanza neppure nel bouquet aromatico con l’idea di regalare il secondo bicchiere migliore del primo.


In fiera arriva il metodo classico pas dosé 2018, sboccatura recente, pinot nero in purezza; e il metodo classico blanc de noir, vendemmia 2004, 11 anni sui lieviti, sboccatura 2015 con lungo riposo in bottiglia seguendo le tendenze più recenti delle pratiche della Champagne, prodotto che si fa apprezzare per una nota speziata, medicinale e un sentore di caramello che in bocca non è saturante.

Anzi la sua nota amaricante lascia il posto a un sentore agrumato candito che mantiene, malgrado la complessità, una buona freschezza grazie ai 6 grammi litro di residuo zuccherino. Alla fine il palato è soddisfatto, non stanco, pulito e la promessa del naso è conservata e rilanciata in bocca.

A cura di Giada Luni

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Food & Beverage

Il nuovo menu di Armani/Ristorante indossa i colori della primavera: è la terra a fare da ispirazione.

Armani Hotel Milano

L’Executive Chef Francesco Mascheroni porta nuance e profumi primaverili nella nuova proposta culinaria di Armani/Ristorante con un menu degustazione “Signature” e uno alla carta che tracciano l’ultima strada del gusto. L’ispirazione viene dalla terra e la parola chiave è semplicità, tutt’altro che semplice, frutto di una ricerca e di una limatura costante che tempera la creatività con la misura, a partire dalle stagioni.

La tavola dell’Armani Ristorante è lo specchio del senso dell’eleganza per la Maison che nell’eleganza dell’essenzialità declina il suo modo di fare lusso, essenziale, dalle linee contemporanee e improntato alla dinamicità della vita attuale.

Al settimo piano di Armani Hotel Milano, la proposta, ideata dall’Executive Chef Francesco Mascheroni, offre una cucina senza confini per creatività e materie prime stagionali, dove il minimo comune denominatore è la semplicità. I contorni nitidi e i sapori in perfetto equilibrio tracciano la strada per arrivare al gusto puro e rassicurante dell’ingrediente. Tecnica, tendenze, ispirazioni locali e internazionali si incontrano e generano un’esperienza gastronomica che si fonde in modo armonico e silenzioso al design minimale della location.

“Quando compongo un nuovo menu mi lascio ispirare da ciò che la terra ci dona. Mi piace riportare la fioritura della stagione in ogni piatto”, ha dichiarato Francesco Mascheroni.

E così, le materie prime stagionali, raccolte dal suolo e portate in tavola, diventano le protagoniste di una storia capace di abbracciare contemporaneamente più mondi e dimensioni.

Freschezza, importanza del vegetale nel piatto che è, ad un tempo, ricerca di nuove frontiere – offrendo ad esempio delle soluzioni vegetariane – e recuperando l’antico, come i piselli crudi in insalata o le verdure di campo declinate secondo le quattro stagioni.

Tante le suggestioni e la creatività che costellano il menu degustazione “Signature”, un viaggio all’interno del gusto, della sincerità e della semplicità, così come nella proposta alla carta. Si parte con gli Asparagi bianchi, lattuga e yozu;

Non solo insalata con lardo di Colonnata, olive taggiasche, pesto di basilico e Tacos di mare, ventresca di tonno, uova strapazzate in un modo unico che rende l’uovo un’emulsione dalla tattilità preziosa, e cipollotto; oltre che i grandi classici del luogo quale il gambero rosso di Mazzara, purea di carote, gelatina e finitura con burro chiarificato.

Passando ai primi, spiccano Riso con asparagi, crescione, sambuco; Come una lasagna condita col ragù d’anatra, latte di cocco e curry verde e i Ravioli ripieni di agnello, favette piselli, pepe rosa e limone d’Amalfi candito. Infine, i secondi con le proposte di mare, come il Rombo, calamaretti, rape al burro, brodo ristretto di teste all’infuso di galanga e lemongrass e quelle di terra, come il Vitello, asparagi e spugnole.

L’attenzione ai doni che la terra offre in prossimità e al territorio anche nello stile della presentazione e nell’arredo non tralascia di rivolgere lo sguardo lontano, come si conviene a una città metropolitana, ospitando incursioni dal mondo reinterpretate in modo personalizzato.

Anche la cocktail list al BamBoo Bar si ispira agli Echi dal mondo eper celebrare la Design Week, nella serata del 18 aprile la performance unirà le tre anime, deejay set, sax e percussioni. Armani Hotel Milano svela la lista cocktail in occasione del Salone Internazionale del Mobile 2024, ispirata appunto alla nuova collezione Armani/Casa, Echi dal Mondo, che richiama atmosfere e colori raccolti da Giorgio Armani nel corso dei suoi viaggi e ricerche.

La Cina, miscela Gin, liquore al fico, riduzione di aceto balsamico di Modena e soia, soda al litchi; l’Europa, Gin Alkkemist, Cocchi Americano infuso alla maggiorana, Saint Germain, olio essenziale di limone; il Giappone, Nikka Coffey malt, succo di yuzu, sciroppo di amarene, albume d’uovo; Marocco, il cocktail che unisce la Vodka al cardamomo e zafferano, the verde, crema di menta verde, succo di limone, sciroppo al cioccolato bianco; infine Arabia, Zacapa 23, infusione al karkadè con fiori di pisello e anice stellato.

La cantina è ampia, preziosa, non solo importante, con scelte originali e anche sperimentali perfettamente nello stile del luogo.

L’impressione è di un ambiente intimo, al riparo dal ritmo della città dove la leggerezza è di casa, senza eccessi, effetti speciali, ma una cura attenta e discreta del cliente. All’ultimo piano di un Palazzo storico in stile razionalista, linee pulite che raccontano la casa Armani, così come i toni del beige tenue e grigio perla, mentre il pavimento è decisamente originale, in onice nero e marmo chiaro con venature, retroilluminato a disegnare una scacchiera che diventa una sorta di passerella nell’entrata al ristorante.

Tovagliato impeccabile e fiori discreti e scelti mentre lo sguardo si perde nella città, in un punto strategico dalla Milano storica a due passi dalla Scala e dal Duomo, oltre che dal Quadrilatero della moda al Quartiere di Porta Nuova, che ha disegnato il nuovo skyline della città moderna.

Giada Luni

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