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Redazione

beauty

Iris per 175 anni di Molinard, icona della profumeria francese.

Molinard

Nuova creazione per l’icona della profumeria francese, la Maison Molinard, uno dei più antichi profumieri del mondo e il primo della città di Grasse, che per celebrare i suoi 175 anni rende omaggio all’eterna musa della profumeria, l’Iris, fonte di ispirazione e ingrediente prezioso anche per le caratteristiche tecniche della sua radice. Il profumo è dedicato alla figlia di Célia Lerouge-Bénard, direttrice generale e quinta generazione dei profumi Molinard.

La fragranza è avvolgente, intensa, con una spiccata riconoscibilità dei sentori che individuano un profumo di stile molto francese, capace di evocare i sentori d’antan, la classicità del gusto e insieme offrire una spinta briosa decisamente contemporanea.

Da notare la sua persistenza che non diventa invasiva e che anche con le temperature estive non satura ma permane vestendo delicatamente la pelle, grazie ad una buona armonia tra intensità e freschezza.

Il suo colore vuole lo rende fiore simbolo della Maison, che si associa al primo approccio alla violetta e alla rosa, il binomio della tradizione della profumeria che annuncia una femminilità, delicata e suadente ad un tempo, per poi evolvere in note muschiate e legnose. L’individuazione dei sentori è lo spirito della linea Les Eléments, che scava in ogni componente per tirarne fuori l’essenza. Il viaggio nella piramide olfattiva ci porta a incontrare le bacche di rosa e le foglie di violetta, ma anche di pera tra le note di testa; quindi troviamo al cuore l’iris e la rosa e tra le note di fondo muschio, cedro, legno di cashmere.

La Maison Molinard – in Italia distribuita in modo esclusivo da Aquacosmetics Srl Unipersonale – ha una storia familiare importante da cinque generazioni che è rimasta indipendente e per questo è parte del patrimonio francese tanto da essere stata insignita del riconoscimento di “Entreprise du Patrimoine Vivant” che riconosce il suo raro e originale savoir-faire tramandato da generazioni. Fin dal 1849 il celebre profumiere di Grasse ha conquistato una fama internazionale seguendo il fil rouge della qualità degli ingredienti e della tradizione.

Così nei profumi la natura non si perde mai e l’eleganza non diventa effetto speciale, sofisticazione ad ogni costo.

La storia della Maison

Grasse è una piccola cittadina sulle colline della costa azzurra, dove la natura e molto rigogliosa ed è con essa che si intreccia la storia dell’azienda nonché con la storia della profumeria di Grasse e quindi con la storia di Francia.

Fu Filippo il Bello che dette ai «conciatori» il diritto di produrre unguenti profumati e così i conciatori di Grasse divennero famosi a Parigi con il nome di les tanneurs de cuir vert.

Ora le pelli conciate che arrivavano da Grasse, a differenza di tutte quelle che arrivavano dal resto d’Europa, erano particolarmente morbide, di un colore verde pallido ed emanavano un piacevole profumo, fatto dovuto a una ricetta segreta, un pesto di mirto e lentisco, che i conciatori grassois spargevano tra una pelle e l’altra.

Queste pelli erano particolarmente pregiate e apprezzate dai guantai ed ecco perché Filippo il Bello diede ai conciatori il diritto di produrre profumi e unguenti. Il tempo passa e con Luigi XIII, figlio di Maria de’ Medici, nel gennaio 1614 nasce la corporazione dei Maître Parfumeurs et Gantiers, grazie alla quale ci fu una vera e propria evoluzione industriale. Infatti, fino al 1300 l’unico metodo conosciuto per creare profumi era grazie alla distillazione e l’enfleurage, già conosciute dagli egizi e poi dagli arabi, portata in Europa dagli scambi con la Terra Santa ed in particolare le crociate.

Nel 1724 la corporazione di Grasse era la più potente e decise di separare i guantai dai profumieri.

Grazie alla collaborazione con la facoltà di medicina di Montpellier, la scoperta della trementina, la distillazione di acque di frutta, dei rizomi, dei tuberi, tra 1600 e il 1700 queste scoperte diedero un forte impulso alle attività legate alla produzione delle materie prime e dei profumi. Viene introdotto il metodo dell’estrazione e vengono creati nuovi ingredienti.

Agli inizi dell’Ottocento i Maître Parfumeur sono di fatto una forza politica ed economica molto potente. Nel 1849, un chimico di nome Giacinto Molinard apre una bottega di profumeria nel centro di Grasse dove vende Eaux de Cologne e Eaux de Toilette di sua produzione, estratte da fiori e frutti da lui raccolti sulle colline attorno alla città. Divenne famoso con il nome di Molinard Jeune «Il giovane» perché si distinse subito dai suoi colleghi per lo spirito innovativo.

La Regina Vittoria (1825-1901), a dispetto della geografia dei suoi titoli, Regina di Gran Bretagna e Irlanda, Regina del Canada, Regina d’Australia e Imperatrice delle Indie la sovrana amò incondizionatamente la Francia. In particolare, frequentò assiduamente la Costa Azzurra, al punto da indurla a dichiarare: “Se ci dovesse essere una guerra tra Francia e Inghilterra, chiedo a Dio la grazia di morire prima”. Nel 1891 soggiorna all’hotel Carlton di Cannes e scopre i profumi di Molinard che divennero famosi in tutta Europa. La famiglia Lerouge-Bénard, tuttora proprietaria della Maison Molinard, acquisisce le formule e inizia la collaborazione con in più grandi vetrai di fine secolo, come Viard e vetrai di Baccarat.

A cura di Giada Luni

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Arte

“Fanny art”: Silvia Fanny incanta il Panorama Artistico con il Suo Primo Concept Store.

Fanny art

Silvia Fanny ha inaugurato il suo primo concept store, “fanny art”, ad Arona, una splendida cittadina affacciata sulle sponde del Lago Maggiore.

Questo progetto visionario, destinato a riscuotere successo a livello internazionale, è stato presentato con un esclusivo cocktail che ha accolto una platea selezionata di ospiti, amici, operatori del settore e potenziali clienti, offrendo loro l’opportunità di immergersi in un mondo straordinario fatto di passione e desiderio.

Il concept store “fanny art” rappresenta un’esperienza ineguagliabile nel panorama artistico contemporaneo, dove istinto e creatività si fondono armoniosamente in un universo in costante evoluzione. Dal design per la casa alla moda, culminando in opere d’arte uniche ed esclusive, questo spazio è un vero e proprio santuario della bellezza e dell’innovazione.

Silvia Fanny, la visionaria fondatrice, ha descritto il suo ambizioso progetto con parole profonde: “E la meccanica incontrerà la moda, l’arte e il desiderio, ma prima di tutto incontrerà il vostro cuore trasformandolo in un vortice passionale di trucioli vaganti o semplicemente nel più splendente degli acciai…”.

Queste parole evocative sottolineano l’offerta di un’esperienza artistica senza precedenti, capace di toccare le corde più intime del cuore umano.

Nata a Torino, una città con una storia e una cultura millenarie, Silvia Fanny ha coltivato una passione viscerale per l’arte. Le imponenti innovazioni industriali di Torino hanno acceso in lei un ardente interesse per le grandi attività produttive, delineando così il percorso della sua brillante carriera imprenditoriale.

Il truciolo, simbolo di ispirazione e trasformazione, incarna l’essenza di ogni sua creazione, mentre la lavorazione del metallo riflette una filosofia acuta, tagliente e struggente. Silvia ha rivoluzionato il concetto di metalmeccanica, fondendolo con mondi apparentemente distonici per creare un’esperienza sensoriale e artistica senza pari.

Arte, cultura, visione e percezione sono i pilastri portanti dei quattro progetti presentati nel concept store: cuore, tennis, polpo e sole, sia come opere singole che in combinazioni armoniche. Situato in Corso Cavour 107, “fanny art” è pronto ad accogliere appassionati d’arte, amanti del design e acquirenti in cerca di pezzi unici, capaci di arricchire i propri spazi con un tocco di raffinata eleganza.

Una visione unica e straordinariamente preziosa, dedicata a chi sa apprezzare oggetti nati dalla maestria e dall’artigianalità dell’eccellenza del Made in Italy.

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Food & Beverage

Foodspot, i cinque sensi a tavola. L’arte della cucina e del riciclo nello spazio milanese.

Foodspot

Ha compiuto dieci anni Foodspot a due passi da Romolo, uno spazio di gusto che definirlo una scuola di cucina è riduttivo. La cucina come arte, il libro del pittore Toulouse-Lautrec dal quale tutto è partito, un’ispirazione che Claudio Composti gallerista della mc2Gallery di Milano, curatore di mostre, docente ed esperto di fotografia d’arte, aveva già maturato a dire il vero ben prima.

Ai fornelli e alla conduzione Tommaso Fara, milanese, una famiglia originaria di Bosa in Sardegna, le cui origini si perdono nella Spagna rinascimentale, uno chef sui generis che nasce come restauratore di mobili antichi, passione presa dal nonno e un’attenzione particolare per i sistemi di cottura, un viaggio nello spazio e nel tempo come ostrano i suoi attrezzi di cucina.

Lo affianca Maria Giovanna Giugliano, artista che si affida alla fotografia sul tema del cibo e del rapporto con il corpo e che ha presentato una sequenza alla quale si è ispirata una serata. Il progetto in corso è Ordinary Pleasure, progetto vincitore della seconda edizione del Premio IRINOX SAVE THE FOOD in collaborazione con MIA Fair e Fiere di Parma che Maria Giovanna sta approfondendo con ricerche teorico-pratiche, indagando il rapporto tra uomo e natura attraverso il nutrimento, anche in senso metaforico. Approfondimento che coinvolge tra le varie esplorazioni un’esperienza di cucina all’Istituto Alberghiero di Alghero. L’ultimo esperimento è dedicato a dipingere il cibo con il cibo, attingendo direttamente al frigorifero, con l’idea del cibo di prossimità e quotidiano.

Nasce così ad Tomato Sun a partire da un piatto di spaghetti al pomodoro, come anche Fragole con panna o un’insalata della quale si utilizzano gli scarti, ad esempio le foglie non più fresche o da scartare utilizzate per colorare naturalmente come può avvenire con barbabietola e peperoni.

La puntata zero del progetto di serate conviviali ideato da Claudio Composti, a partire da una suggestione artistica, è stata con il fotografo ispano-argentino Patricio Reig, classe 1959, residente a Milano, i cui lavori sul cibo, accanto ai ritratti di donna tra i suoi temi centrali, anticati con il caffè. Il progetto poi con Tommaso Fara ha preso corpo anche in un senso ampio di sostenibilità a partire dall’economia circolare fino alla funzione sociale del cibo per rieducare al gusto persone che soffrono di disturbi alimentari, in particolare giovani anoressici con i quali si fa un percorso ad hoc in collaborazione con l’associazione culturale Nutrimente.

Il 6 giugno è invece la volta una cena in collaborazione con il Dipartimento Cervico Facciale dell’Istituto Europeo di Oncologia, dedicata alle persone che a causa di un tumore al cavo orale hanno problemi di percezione del gusto e di deglutizione per la quale sarà preparato un intero menu realizzato con gelatine che creano un gioco di scoperta e una nuova via alla socialità. L’idea è che l’arte sotto ogni forma possa curare.

In autunno è prevista invece una puntata realizzata con la Galleria di Torino Mucho Mas e l’artista tedesca di origine vietnamita che realizza foto, video e sculture con il cibo indagando il rapporto con la colonizzazione, Hiè’n Hoàng, con riflessi che si estendono per generazioni. Proprio nella mostra allestita nello spazio di Mucho Mas c’è un’installazione che contiene anche alcuni elementi del progetto interdisciplinare “Asia Bistro-Made in Rice”, in cui l’artista ha utilizzato il riso, ingrediente tipico del suo Paese d’origine e simbolo del concetto di ‘asiatico’ in Occidente, per affrontare la discriminazione che sottende il concetto di ‘immigrato buono’. Il cibo diventa metafora degli stereotipi legati alle culture asiatiche, una limitazione, una maschera. L’opera evidenzia il dibattito sul tema della politica dell’immigrazione in Germania e in Europa, e di come questa si ripercuota sulle persone generando traumi, sia a livello personale che nella comunità. Nello spazio di Foodspot viene esso in scena il concetto che ‘cucinare insieme fa bene’.

Chi è Claudio Composti

Classe 1973, è cresciuto nel mondo dell’arte, grazie al padre gallerista.

È curatore indipendente, fondatore e art director di mc2gallery a Milano, galleria specializzata in fotografia; talent scout di giovani artisti, che promuove con la piattaforma online Periscope Photoscouting o mettendoli in contatto con realtà e professionisti che possano svilupparne il percorso. Collabora come curatore con gallerie italiane, straniere, istituzioni o spazi pubblici e privati o musei. Cura progetti ad hoc per brand che si vogliono avvicinare all’arte. Ha curato mostre museali come la mostra Lisette Model: Street life al museo della fotografia CAMERA, di Torino (con un testo in catalogo) e al MART di Rovereto la mostra Cabaret Vienna. L’atelier fotografico Manassé, da un progetto di Chiara Spenuso (con un testo in catalogo).

Dal 2018 è Private Art Advisor per collezioni private e Corporate Collections per alcuni brand ed è direttore artistico della galleria/collezione privata dell’Hotel 5 stelle Plaza et de Russie di Viareggio, in provincia di Lucca.

Da anni partecipa come Folio Reviewer per diversi festival di fotografia italiani, come Fotografia Europea e internazionali come Les Rencontres de la Photographie di Arles, (Francia) o Face a la Mer, a Tangeri in Marocco.

Ha pubblicato un saggio per il libro Fermo immagine: Arte vita e mercato della Fotografia, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Chiara Spenuso (ed. Mimesis).

Chi è Tommaso Fara

Nasce nel 1971 a Milano da una famiglia molto numerosa e dai genitori eredita presto la passione per la cucina, cominciando già nella giovinezza a sperimentarla per parenti e amici. Si iscrive alla Laurea di Veterinaria seguendo la sua passione per gli animali ma realizza ben presto che le maggiori soddisfazioni gli arrivano dagli antichi mestieri che aveva iniziato a praticare nel tempo libero: restaurare mobili e cucinare.

Lascia gli studi e parte prima per Londra, poi Madrid e l’Andalusia. Tornato in Italia affina le tecniche imparate sul campo e si ritrova quasi per caso a scrivere libri di cucina, mantenendo sempre viva l’arte del restauro.

Nel 2005 pubblica il suo primo libro, Il cucchiaino caramellato (De Agostini). Nel 2006 intraprende, con l’amico skipper Simone Magni, una crociera gastronautica nei mari italiani alla scoperta di ricette tipiche del territorio, dando vita alla rubrica radiofonica “Cucina di bolina” su Radio 101.

Tra il 2007 e il 2008 cura otto volumi sulla cucina italiana per De Agostini. E nel 2010, per le Edizioni Gribaudo, pubblica in collaborazione con Lisa Casali il volume Cucina ad impatto (quasi) zero.

Infine, nel 2012, compare il suo ultimo libro, Diversamente cotto, un viaggio nel tempo e nello spazio tra le tecniche di cottura.

Nel 2014 realizza il suo nuovo progetto FOODSPOT, dove la convivialità fa da padrona di casa.

Chi è Maria Giovanna Giugliano

Nata nel 1995, è una food artist e visual storyteller. Ha completato i suoi studi fotografici a New York presso L’International Center of Photography e al momento si divide tra l’Italia e NYC.

La sua ricerca visiva Ordinary Pleasures, dedicata al rapporto tra Uomo e Natura attraverso il cibo, ha vinto la seconda edizione del premio Irinox Save the Food 2023.

Il progetto è stato esposto durante il MIA, lo Yeast Photofestival, e al momento è in mostra presso il Lenzburg Fotofestival.

È stato selezionato come progetto caso studio per l’imminente numero in uscita di Graphicus Mag, dedicato all’Eros.

Maria Giovanna sta lanciando il suo studio creativo Dulcis, dedicato alla comunicazione del piacere di nutrirsi con responsabilità e consapevolezza attraverso produzioni collaborative che coinvolgono arte e scienza.

A cura di Giada Luni

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Food & Beveragehotellerie

A Como il lago protagonista di sapori e saperi. A Sottovoce dell’hotel Vista Palazzo Lago di Como l’atmosfera di una fiaba contemporanea.

hotel Vista Palazzo Lago

Nel cuore di Como, un affaccio unico e suggestivo sul lago, al Roof di un ingresso discreto, quello dell’hotel boutique Vista Palazzo Lago di Como – del Gruppo LarioHotels – dal fascino d’antan, elegante con una vista lago da tutte le camere e dal ristorante Sottovoce, un nome che dice l’essenza di questo luogo, dove la riservatezza è di casa.

Siamo a Palazzo Venezia, prestigioso edificio costruito nel 1870 in seguito alla demolizione di una tintoria e subito dopo l’attuale creazione di piazza Cavour ricavata nel 1869 dall’interramento dell’antico porto costruito dai Visconti nel XIV secolo e inadeguato per i piroscafi a vapore che andavano diffondendosi.

Caratterizzato da una facciata neogotica, fatto unico a Como, è caratteristico anche per l’orologio affisso sullo spigolo dell’edificio che risale al 1904, il più antico dei 120 che si trovano sul territorio comunale.

L’ambiente è raccolto con una parete interamente vetrata che si affaccia sull’acqua con alcune sedute sul balcone per godere l’en plein air e piccoli tavoli, con tavolinetti, un arredo sofisticato e fresco ad un tempo, e un salotto privé con libreria e divano che accoglie piacevolmente e i tavoli vestiti di tovaglie realizzate ad hoc da Rivolta Carmignani.

Il lago è il vero protagonista, nella vista, nel piatto e nel racconto.

Lo chef Stefano Mattara ha fatto una scelta coraggiosa e decisa che conferma e rilancia mettendo al centro della proposta il pesce locale e rendendolo gourmet. Uno stile che sposa il territorio, scelta rafforzata dalla selezione di piccoli produttori e di una stagionalità vissuta, non decisa a priori sul calendario, che serve a declinare i piatti in carta aggiornandoli con quello che il mercato propone. orientandosi sulla territorialità con una vocazione al pesce di lago e premiando la stagionalità del momento per declinare i piatti.

Per enfatizzare il racconto, la proposta, che lascia la possibilità di mangiare alla carta, attingendo dalle varie antologie, si articola fondamentalmente in menu degustazioni, percorsi di narrazione ad esempio con i classici dello chef o più sperimentale per palati gourmet o il Green che viene incontro a nuove esigenze del rapporto con il cibo sempre più attendo alla sostenibilità, al gusto del vegetale.

Vera novità il menu Experience servito a sorpresa all’ospite che viene omaggiato con un libro ricordo con i piatti più significativi e le leggende del Lago che li hanno ispirati, Storie Sottovoce. Ingredienti e storie di uno dei laghi più famosi del mondo come l’antica leggenda del Lariosauro che in realtà è esistito davvero, un rettile lacustre estintosi oltre 200 milioni di anni fa e sul quale si favoleggiando avvisamenti relativamente recenti.

Tra i tanti misteri il Fiumelatte, un fiume, il fiume più corto d’Italia, incastonato tra le vecchie abitazioni un tempo dei pescatori, lungo la Statale 36 in direzione di Varenna. Con i suoi 250 metri, le cui acque impetuose che sembrano simili alla schiuma del latte, appaiono solo il 25 marzo quando escono da una fenditura della montagna.

Sul territorio c’è anche uno dei cosiddetti Ponti del Diavolo, chiamati così per la maestria e la rapidità nel costruirli che non sembravano essere opera dell’uomo. Il ponte di Lezzeno è stato costruito tra il 1911 e il 1917 e il Sottovoce lo ricorda con un piatto piccante.

E poi c’è il Cannone di Brunate chiamato anche Cannone di Mezzogiorno installato nel 1912 sullo spiazzo della Cantoniera lungo la funicolare Como-Brunate e l’Isola Comacina, piccola in mezzo al lago, forse nel punto più bello, ricca di storia dalle prime testimonianze che attestano una costruzione di epoca romana; distrutta poi nel 1169 dall’Imperatore per essersi schierata con Milano contro Como.

Fu poi a lungo disabitata. Intorno al 1920 l’isola venne affidata all’Accademia di Brera e realizzò delle Case per artisti fra il 1937 e il 1940, una reinterpretazione razionalista dell’architettura vernacolare lariana, ancor oggi utilizzate per brevi soggiorni da artisti.

Il nostro viaggio è guidato a quattro mani dallo chef e dalla competenza divertita di Cristiano Mariani, maestro nella ricerca di chicche, piccoli produttori e prodotti mai scontati.

Dopo alcune sfiziose entrée accompagnate da un bicchiere prezioso, per brindare a un incontro: con Champagne Gosset, Gran Rosé Brut; per antipasto Salmerino, salsa al pino mugo, porro brasato e roccia effervescente, gradevole e stuzzicante per pulire la bocca e l’abbinamento ben riuscito è con un Sauvignon blanc, Vette (con i vitigni a 500 etri sul livello del mare) del 2022 che conserva una grande freschezza. Immancabile il Risotto Carnaroli Riserva San Massimo con peperoni rossi e alborelle affumicate, terra di olive e perle piccanti, servito con cucchiai piccoli, tocco di attenzione per le signore. Il matrimonio è con Molmenti Costaripa del 2018, vino prodotto sulla costa lombarda del Lago di Garda realizzato con pressatura a goccia, molto soffice da uve di Marzemino, Groppello, Barbera e Sangiovese che sa unire freschezza e morbidezza con sentori burroso.

Si prosegue con il Pesce gatto cbt, olio al prezzemolo con brodo di Katsuobushi, pakchoi, cavolo cinese e polvere di liquirizia.

Un pesce gustoso non autoctono inserito nel Lario per la pesca sportiva e che poi è diventato invasivo nonché un problema perché vorace, qualcosa di analogo al granchio blu.

Così viene spesso pescato ‘forzatamente’ e gettato quando invece può diventare un ottimo piatto. L’abbinamento è con Bacca di La Costa, un Verdese della Brianza lecchese, prodotto singolare che fa 13 giorni di macerazione con le bucce, quindi la fermentazione e al termine un anno in barrique.

Si tratta di un vino originale, locale, del quale l’azienda produce solo 500 bottiglie l’anno e che ha caratteristiche paragonabili a quelle delle uve rosse.

Per finire una piccola antologia di dessert che sposa le diverse tipologie di gusto, dal goloso Pane e “Nutella”, un gianduia artigianale; l’intrigante miele locale con tamarindo e olive, un ingrediente che non ci si aspetta per il dolce.

Tra le signature del ristorante Rivo Gin, con la selezione di un prodotto autoctono e il più possibile artigianale, con la raccolta a mano delle bacche. Infine un assoluto all’arancia, dove il frutto è protagonista assoluto e si gioca con consistenze diverse, dalla spuma al sorbetto al frutto seccato.

Molto gradevole per quest’ultimo l’abbinamento con un Sauternes (Sauvignon blanc, Sémillon e Muscadelle) Chateau de Rieussec 2019 che ha una grande freschezza e note di zeste di agrume.

Giada Luni

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Musica

Showcase di NUMA ECHOS promosso da LIVE IS LIFE NETWORK al “FESTIVAL LOVE – Innamorati a Scandiano”, in attesa del concerto di NOEMI sabato 1 Giugno.

NUMA ECHOS

Torna a Scandiano festivaLOVE – Innamorati a Scandiano, uno degli appuntamenti più iconici e rappresentativi del ricco palinsesto di eventi scandianese.

La manifestazione, giunta quest’anno alla sua ottava edizione, si svolgerà da venerdì 31 maggio a domenica 2 giugno 2024.
Nel corso del festival, che vedrà protagonisti LA CRUS venerdì 31 maggio, NOEMI sabato 1 giugno e DANIELE SILVESTRI domenica 2 giugno, sarà possibile partecipare gratuitamente a numerosi eventi prima e dopo i concerti.
Lo showcase di NUMA ECHOS promosso da LIVE IS LIFE NETWORK, durante il quale verranno presentati brani estratti dal nuovo album Descending Consciousness (2023 Wave Records, Brazil) interamente scritto e prodotto da Numa Echos in collaborazione con Filippo Scrimizzi nello studio Sub711 di Milano, si svolgerà in attesa del concerto di NOEMI sabato 1 giugno 2024 alle ore 20.15 nella piazza di Corso Antonio Vallisneri.

Numa Echos sarà accompagnata live da ELIA MARTINA chitarrista e compositore che proporrà anche i suoi interludi musicali e NEVRUZ, compositore, cantautore, e polistrumentista nonchè co-fondatore e batterista dei Water in Face che annuncia il suo ritorno alla batteria.

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Food & Beverage

Al Castello di Albola il vino sposa la cultura. Nel Chianti Classico aspettando la nuova edizione di Dialoghi paralleli.

castello di albola

Il vino è sempre più il filo che disegna la trama di un’attività economica con un risvolto ad ampio spettro culturale e al Castello di Albola, a due passi da Radda in Chianti, nella parte orientale del Chianti Classico, si è attenti a bilanciare la produzione vinicola, il valore del marchio, e la ricettività dove al centro c’è sempre l’idea dell’esperienza e della degustazione. Tutto ruota dunque intorno ai vigneti che diventano un palcoscenico per manifestazioni culturali variegate.

Qui infatti il vino è espressione forte del territorio e nelle etichette ne racconta la storia ma il vino resta protagonista anche del percorso di degustazione e di visita del borgo.

Non si parla infatti di un ristorante ma di uno spazio dove il cibo si cucina intorno ad una passeggiata nel vino con due proposte diverse. Insomma non si sceglie tra due menu degustazione ma tra due degustazioni di vino.

La storia in tal senso fa da guida.

Albola è un piccolo borgo i cui primi insediamenti risalgono al Medioevo – la Torre e il Cassero, del XII secolo – mentre la villa padronale, che è identificativa del luogo, presente nelle etichette, con la chiesetta tuttora consacrata e il giardino elegante con le statue, quasi un unicum nella zona, sono di epoca rinascimentale. Proprietà degli Acciaioli che gli hanno conferito questo volto, è passata nel tempo dalle mani di diverse famiglie nobili, quali i Samminiati, i Pazzi e in ultimo il principe Giovanni Ginori Conti dal quale la famiglia Zonin, l’ha acquistata nel 1979, segnando l’entrata di Albola nel Gruppo Zonin 1821.

La zona di Castello di Albola è ufficialmente menzionata come “terra vocata alla viticoltura” in un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, che testimonia l’acquisizione della proprietà da parte degli Acciaiuoli nel 1480, firmato da Niccolò Acciaioli. Alla fine del ‘400 Lodovico Acciaiuoli, che aspirava ad espandere i possedimenti chiantigiani essendo un “insigne dottore cittadino e avvocato fiorentino”, fonda di fatto il possedimento di Pian d’Albola come lo conosciamo oggi.

L’origine di Albola, lì dove la Pesa ha le sue sorgenti, però sfuma nel mito della civiltà protovillanoviana ed è certo che il toponimo abbia origine etrusca. Le prime fondi della storia di Albola legate alla cultura vitivinicola si trovano nel Dizionario fisico geografico del Granducato di Toscana (1841) di Emanule Repetti, importante un geografo, storico e naturalista italiano, che cita: “Chiamasi propriamente Albola una piaggia accreditata per i suoi vigneti, dai quali si ottengono forse i migliori vini del Chianti.” In realtà di Albola si parla molto prima e questo territorio venne citato per la prima volta in documenti risalenti all’XI secolo: in un documento datato 1010 l’Arcivescovo di Milano Arnolfo II concesse a un tale Gerardo l’affitto per la coltivazione di dieci mansi di proprietà della chiesa milanese. La diocesi tenne in possesso queste terre per circa tre secoli. Poi se ne conosce la dipendenza dalla Badia di Coltibuono.

Questa in sintesi la storia di un piccolo gioiello nei secoli che oggi con vigneti che vanno da un’altitudine di 450 metri sul livello del mare al 680 – per questo che i vini prodotti in questa Tenuta sono definiti Wines of Altitude – e si estendono su un territorio di 900 ettari di cui 110 vitati (ben 100 ettari DOCG), attualmente diretto da Alessandro Gallo, Enologo dell’azienda – che si avvale della consulenza enologica di Giuseppe Caviola – un piemontese del Monferrato che da vent’anni si è trasferito in Toscana.

Nato con il vino nelle vene, visto che il nonno produceva vino ad Acqui Terme, dove tuttora mantiene una piccola produzione familiare, è cresciuto con la passione per la vigna prima che per la cantina e ha studiato alla Scuola enologica Alma, per quindi si è laureato in chimica a Torino.

Nel 2004 l’incontro con Zonin è una scintilla che incendia l’animo di Alessandro e lo porta a trasferirsi tra i cipressi diventando amministratore di una società del Gruppo.

Il Castello di Albola gode dell’altitudine che soprattutto con i cambiamenti climatici sta diventando un vantaggio per la vigna – qui si coltiva soprattutto Sangiovese, il principe di Toscana, su 100 ettari, Chardonnay e Cabernet Sauvignon – e per gli ospiti di quello che possiamo considerare un albergo diffuso e che ambisce ad essere un borgo diffuso dove attualmente si contano 25mila presenze all’anno.

L’attività ha il cuore nella produzione che vede Sangiovese in purezza; Chardonnay di altura (Poggio Le Fate), una bella sorpresa con una freschezza che sorprende e bilancia la morbidezza e l’ampiezza del naso che non diventa stucchevole; un Super Tuscan singolare, l’Acciaiolo, in omaggio alla storia, Cabernet Sauvignon, bella struttura e profondità. Non poteva mancare nell’antologia il cuore della toscanità con cinque etichette di Chianti Classico, rispettivamente Classico Annata, Riserva e tre single vineyard, quali Solatìo, un nome di spessore, Santa Caterina e Marangole, solo per il Castello, non in distribuzione.

L’anima e il sogno di Castello di Albola sono rappresentati, come accennato, dai percorsi di degustazione e intrattenimento culturale di ampio respiro.

Quest’ultimo progetto è partito nel 2020 ancora in piena pandemia con una certa diversificazione, da concerti di musica leggera a concerti di musica classica con l’Accademia di Musica di Siena, a spettacoli teatrali (prossimamente uno spettacolo di Ginevra Fenyes e di Vittorio Pettinato) a proiezioni cinematografiche abbinate a menu tematici a mostre di pittura allestite nella barricaia, nelle cantine storiche sotterranee. Dialoghi paralleliè in tal senso un titolo emblematico di due mondi che si sfiorano, fatti di passione, di sogno e di artigianato, quello del vino e dell’arte.

Il concetto esprime una profonda chiave di interpretazione della contemporaneità: sono “Dialoghi Paralleli” tutte quelle conversazioni, diverse tra loro, che nel loro percorso si susseguono senza mai perdere la propria unicità; tutti quei confronti che grazie alla propria vicinanza si arricchiscono ma non disperdono la voce del proprio interlocutore. La prossimità continua data dal parallelismo, qualunque esso sia, è simbolo di rispetto, reciprocità ed apertura.

La mancanza di intersezione, tipica dei parallelismi, ha un forte significato simbolico: non è mancanza di incontro ma confronto costante lungo tutto il cammino.

Nella scorsa edizione ha visto protagonisti l’artista di Certaldo, il paese di Giovanni Boccaccio, Fabio Calvetti il cui filo rosso nella ricerca sono l’attesa, l’assenza, i silenzi dell’anima, uno spazio vuoto proli fico di domande e un artista albanese, Armand Xhomo, che ha lavorato come scenografo in vari teatri e ha svolto il ruolo di grafico pubblicitario per un’importante azienda; due personalità che hanno in comune un’idea di pittura saldamente ancorata ai valori formali ed espressivi della figurazione. “Mentre Calvetti, infatti, si è concentrato sulla dimensione soggettiva e interiore della pittura – scrive Daniela Pronestì che ha curato il testo critico del Catalogo della mostra – con un linguaggio dai toni intimisti, meditativi, talvolta anche melanconici, e una tavolozza che alterna tinte scure e terragne a bianchi lattiginosi e rossi vermigli, Xhomo, al contrario, manifesta un’attitudine creativa più “energica”, vitalistica, vocata all’impeto del gesto pittorico, con un ribollire di colori a colmare lo spazio della rappresentazione e un continuo fluire di visioni che spaziano dall’umano al ferino.”

L’edizione 2024 che vedrà due artisti francesi – i nomi sono ancora riservati – inaugura il 7 settembre prossimo e resterà allestita fino al 31 dicembre, promuovendo un dialogo internazionale ma ancora top secret sulle firme.

Come il vino del Chianti è un ambasciatore della Toscana nel mondo, non solo per il gusto quant’anche per lo stile e la vita legata alla campagna e alla dimensione di sostenibilità, cara al Castello di Albola, così la regione diventa il palcoscenico dell’arte internazionale che da sempre ha trovato a Firenze e nei suoi dintorni una culla di civiltà e di ispirazione.

La prossima tappa sarà nella tenuta della stessa proprietà, Rocca di Monte Massi, nell’entroterra di Castiglione della Pescaia, in Maremma, dove accanto all’attività vinicola Vermentino e ai vitigni internazionali ha dato vita ad un Museo agricolo che raccoglie tremila ‘pezzi’.

Giada Luni

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Food & BeverageSenza categoria

Uguali ma Diversi, in bianco e nero- due vitigni declinati in modo diverso alla tavola di VinoPeople.

VinoPeople

Ultimi due appuntamenti dell’anno per il progetto “Uguali ma Diversi” dell’Associazione VinoPeople – reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Chianti Banca, che condivide la missione di promuovere la cultura enogastronomica territoriale e valorizzare le eccellenze del territorio – che declina il vitigno in tre stili diverse con la presenza di tre Maison di produzione dello stesso territorio. Così per il Nobile Pinot Nero, il racconto di tre espressioni toscane che ha visto in tavola “Il Borgo” di Borgo Macereto di Dicomano, nella zona di Firenze, “Bosco Bruno” di Vallepicciola di Pievasciata nel Comune di Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena e “Monteprimo” di Bacco del Monte di Vicchio del Mugello, in provincia di Firenze, in abbinamento ai piatti preparati dallo chef Michele Berlendis del ristorante Riva Kitchen di Firenze.

Gli eventi, organizzati dall’associazione VinoPeople e condotti da Sara Cintelli e Milko Chilleri, hanno offerto ai partecipanti la possibilità di scoprire un vitigno di origine francese noto per essere delicato e non avere rese generose che diventa, oggi più che mai una scommessa; e il pregiato vitigno piemontese, Timorasso.

L’azienda Borgo Macereto coltiva diverse varietà di uva, tra cui il Sangiovese, che è la punta di diamante per la produzione dei Chianti Rufina, ma anche il Pinot Nero, introdotto con entusiasmo. Oltre a queste, coltiva anche altre varietà di uva bianca, come il Riesling, il Moscato e il Sauvignon Blanc. “I nostri vini, racconta Ilaria Chimenti, spaziano quindi dalle classiche etichette toscane ai bianchi aromatici, offrendo una gamma diversificata che soddisfi i gusti più esigenti. ciò che renda unici i nostri vini sia la loro capacità di raccontare la storia del territorio da cui provengono.”

E il pinot nero, più di altri vitigni ha questa capacità e caratteristica. “Il Borgo 2020” celebra il Pinot Nero, adattato magnificamente al Mugello, con una delicata nota violacea e aromi di ciliegia, cuoio, cioccolato bianco e mora, dall’impatto morbido. Perfetto con selvaggina, formaggi leggeri e anatra all’arancia.

La raccolta manuale in cassette assicura la selezione migliore. Le uve vengono poi vinificate in tini di rovere francese e affinate in tonneaux e barriques per 12 mesi, seguite da 6 mesi di affinamento in bottiglia prima della commercializzazione.

Vallepicciola affonda la sua storia negli anni Novanta quando la famiglia Bolfo ha intrapreso l’affascinante impresa di restaurare le rovine di un antico convento a Pievasciata, nel comune di Castelnuovo Berardenga. Da quei vigneti, ora parte dell’Hotel 5 stelle Le Fontanelle, nasce Vallepicciola. Su una proprietà di 265 ettari, circondata da boschi e ulivi, coltiviamo con maestria 107 ettari di vitigni d’eccellenza: Sangiovese, Pinot Nero, Merlot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Chardonnay. L’impegno è chiaro, come spiega Alberto Colombo, AD Vallepicciola: “produciamo vini di qualità che celebrano il territorio toscano.

Offriamo esperienze in cantina personalizzate, trasformando ogni degustazione in un momento esclusivo. Nei nostri vini si riflette il nostro impegno quotidiano nella valorizzazione del terroir. Con passione e rispetto, perseguiamo una produzione sostenibile e d’eccellenza.” In particolare, “Bosco Bruno 2022” mostra come il Pinot Nero nel Chianti Classico trovi il suo perfetto connubio con il terroir.

La vendemmia avviene nella prima decade di settembre dal vigneto Boscobruno, con una resa di 45 quintali per ettaro. Situato a 480 metri sul livello del mare, il terreno offre condizioni ottimali.

Dopo la fermentazione in vasche di cemento per 15 giorni, segue la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese usate. L’invecchiamento in barrique dura circa 12 mesi, seguito da 6-8 mesi in bottiglia. Il vino si presenta rubino, luminoso, con profumi di rose rosse, fragoline di bosco, cassis e spezie. I tannini sono setosi e avvolgenti.

La storia di Bacco del Monte inizia nel 1985, quando la famiglia Bacci si trasferisce al “Monte” e pianta una piccola vigna per uso familiare.

Nel 2016, i genitori con l’aiuto dei figli, decidono di ampliare e piantare due ettari di Pinot Nero, fondando l’azienda Bacco del Monte a Vicchio, paese natale di Giotto e del Beato Angelico.

L’azienda produce un solo vino, il Monteprimo, un IGT 100% Pinot Nero, vinificato in acciaio e affinato in barriques di rovere francese. “Si utilizzano esclusivamente tappi di sughero naturale, confermando l’impegno per la qualità e la tradizione,” racconta la figlia nonché enologa dell’azienda, Silvia Bacci, Bacco del Monte, che ha presentato il “Monteprimo 2021

“Dopo una vendemmia interamente manuale, si procede alla diraspatura, utilizzando anche il 20% di grappoli interi.

Segue la fermentazione alcolica e il riposo in legno, in barriques di rovere francese. Il vino non viene filtrato e viene imbottigliato direttamente in cantina, utilizzando tappi di sughero naturale monopezzo, analizzati con naso elettronico. Il nostro obiettivo è di presentare un vino con il minimo trattamento enologico possibile.

Il risultato è un Pinot Nero strutturato, con sentori caldi di frutta matura, macchia e vaniglia al naso, e un palato robusto, ideale con piatti più ricchi e sostanziosi” – conclude Silvia.

Il Timorasso, che conclude il ciclo degli incontri, originario delle colline del Tortonese, vanta una storia antica che risale al Medioevo. Tuttavia, nel XIX secolo ha subito un declino prima per la fillossera poi, nel secolo breve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, a causa della preferenza per vitigni più produttivi.

Fortunatamente, negli Anni Ottanta, alcuni viticoltori pionieri hanno riportato in auge questo vitigno rustico, rivelando il suo grande potenziale, in particolare grazie a Walter Massa a partire dal 1987, il padre della riscoperta del Timorasso.

Questo vitigno si adatta perfettamente ai terreni calcarei e argillosi del Tortonese, producendo grappoli grandi e compatti con acini medio-grandi dalla buccia spessa e dorata.

Pur avendo una resa in vino relativamente bassa, la qualità è eccezionale e i vini sono bianchi strutturati e complessi, in grado di invecchiare per molti anni tanto che questo vitigno viene definito “un rosso travestito da bianco”.

Al di là delle definizioni è evidente la sua capacità grazie ad un’elevata acidità di essere longevo e di evolversi nel tempo; di raccontare un territorio, un autoctono più autoctono di altri visto che a mala pena riesce a dare frutti nel resto del Piemonte.

Non è trasportabile e questo ha creato un forte senso di comunità tra i produttori e il racconto notevolmente identitario della zona.

La sua particolarità con uno spiccato sentore minerale e ampia suggestione fruttata comincia già dal nome di etimologia incerta.

Luigi Bovere, Cascina La Ghersa e La Colombera sono tra le più apprezzate aziende produttrici di questo iconico vino del territorio conosciuto anche come Derthona, “Derthona”, l’antico nome della città da cui ha avuto origine, villaggio ligure ma di espansione romana.

Verticalità in primo piano per l’Azienda Agricola Luigi Bovere, con un sentore di pietra focaia e idrocarburo che domina sulle altre componenti; un sentore di fieno che è quasi paglia e qualcosa di ferroso in bocca per l’annata 2020.

L’annata calda 2019 la si avverte in bocca in un vino ammiccante, quello di Cascina La Ghersa, il cui titolare ci ha raccontato di essere straniero in terra di Timorasso.

La Colombera, azienda nata nel 1937, là dove c’era un anfiteatro romano, ha presentato il vino più strutturato, annata 2017, con una buona armonia tra le componenti sia all’olfattiva sia alla gustativa, vino ‘caldo’, deciso.

In abbinamento per la presentazione Ricotta del Mugello condita su crema di piselli, piselli bruciati e i loro germogli; Lasagna in bianco con melanzane e scamorza affumicata su pesto di basilico; Filetto di maiale di grigio casentinese marinato, cotto a bassa temperatura e poi alla brace su crema di zucchine, pomodoro al forno e fondo bruno di carne; Panna cotta al vin santo con croccante di mandorle.

A conclusione il Vinsanto del Chianti “Collefresco” dell’azienda Poggiotondo di Lorenzo Massart, proveniente dalla zona del Casentino, in provincia di Arezzo. L’azienda, fondata nel 1850 da Ada Lapini e continuata da successori come Antonio Cutini e Guglielmo Massart, si estende su 54 ettari tra Subbiano ed Arezzo, con tre località: Poggiotondo, Le Rancole e Valloni. I vigneti di Poggiotondo, tutti a denominazione Chianti, coprono 4,20 ettari di terreno galestro e sono coltivati con il sistema a cordone speronato.

Dai vecchi vigneti del 1970, restano solo Vigna Grande e Vigna Aldo (circa 3 ettari) con sangiovese (70%), canaiolo, trebbiano e malvasia bianca. Nel 2002 abbiamo aggiunto Vigna Tata (solo sangiovese) e nel 2006 Vigna dei Meli (sangiovese, canaiolo e malvasia bianca).

Il vinsanto Collefresco 2010 nasce dauve Trebbiano e Malvasia, coltivate a 350 metri di altitudine, vinificate in caratelli di diverse dimensioni per cinque anni prima dell’imbottigliamento. Il colore ambrato, si distingue dalle tonalità caramellate artificiali diffuse in alcuni vini. Al naso datteri, melata, miele di acacia ed una bella trama balsamica e di liquirizia.

Al palato, la dolcezza si manifesta in una cremosa intensità, misurata e per nulla stucchevole. Un gusto lungo, lineare e composto, che si evolve in sfumature cangianti.

A cura di Giada Luni

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Musica

Nevruz, “la musica può salvare” intervistato da Numa Echos per Rechos Records & Promotion.

Nevruz

Nevruz, sei un compositore, cantautore, sperimentatore della voce, attore e musicista rock e già prima della tua partecipazione nel 2010 al talent X FACTOR, nel quale hai conquistato il terzo posto, eri molto apprezzato nella scena underground italiana.

Cosa ti ha portato a diventare “talent scout” e docente dato che negli ultimi anni ti stai dedicando alla produzione musicale per altri artisti e all’insegnamento?

Ad un certo punto della mia vita ho realizzato quanto l’arte sia stata sempre importante per me, quanto nella mia vita sia stata un’ancora di salvezza , quanto mi abbia tenuto attaccato alla vita stessa, visto che fin da bambino non ho fatto altro che desiderare la morte invece .

Non ho vissuto una vita serena, non ho avuto un’esistenza facile già dalla mia infanzia, direi piuttosto un’esistenza per certi versi anche traumatica. Grazie all’arte e alla musica ho resistito, sono diventato resiliente.

Ho realizzato meglio tutto questo dopo l’uscita del mio terzo Album IL MIO NOME È NESSUNO, uscita l’opera è come se fosse finito un mio percorso interiore, non ero legato soltanto al mio rapporto personale con la musica, con lo scrivere canzoni ma bensì desideravo uscire da me, mettere a servizio degli altri questo dono e me stesso.

Realizzai finalmente quanto la musica si fosse presa cura di me negli anni pensando semplicemente a quanti lì fuori vivono l’inferno , ho pensato che questa possibilità poteva essere importante anche per loro, che anche altri potevano salvarsi come me.

Ho iniziato con i miei primi laboratori di canto sperimentale nel 2013 al centro sociale Anarchico LIBERA di Modena, poi successivamente tramite l’associazione culturale Trame 2.0 ed il Social Point di Modena abbiamo proposto il mio laboratorio “LA VOCE CHE CURA” pensando il progetto per le persone più sensibili in cura psichiatrica o con disabilità.

Sono partito all’inizio con gli Adulti, l’ho fatto per un po’ di anni, insieme a me partecipavano anche educatori , operatori sanitari, persone che rivestivano cariche istituzionali del settore sanitario e sociale.

Questo è accaduto perché il mio laboratorio si è rivelato negli anni efficace ma soprattutto funzionale tanto da attirare persino la stampa locale e non solo. Il passo successivo è stato quello di proporre il mio laboratorio anche ai minori questo è accaduto grazie ad un’ iniziativa della scuola superiore Carlo SIGONIO di Modena che unisce Liceo Musicale a quello di scienze umane, entrai a far parte di un programma in veste di relatore e collaboratore esterno proponendo alla scuola una nuova materia scolastica durante l’ora di educazione fisica, EDUCAZIONE FISICA DEL SUONO, creammo una classe mista di studenti normo tipi e diversamente abili spingendoli così a interagire tra loro attraversando un’esperienza speciale educativa e formativa.

Dopo questa esperienza portai il mio laboratorio anche presso l’ospedale psichiatrico VILLA IGEA di Modena cominciammo sempre prima con gli adulti in cura e poi con i minori in cura al NESPOLO e al centro diurno GENZETA .

Attraverso i laboratori avvennero gli l’ incontri con i ragazzi che poi si scrissero al mio corso di canto presso le scuole nelle quali insegno e formo i miei Artisti, il Teatro Tempio di Modena e il VecchioSon di Bologna, mentre invece nel mio Home Studio di Carpi mi occupo e curo la preparazione delle live band o le loro preproduzioni. Negli anni ho stretto rapporti solidi con diverse etichette discografiche e dunque aiutandoli spero che intraprenderanno la loro strada musicale fatta di composizione alle volte e di live, concerti e che possa diventare anche per loro qualcosa in cui credere fortemente nella vita, importante per la loro crescita personale e Artistica.

Il lavoro “dietro le quinte” richiede responsabilità e impegno. Come gestisci la suddetta attività parallelamente alla tua attività artistica?

Prima di tutto non supero mai un certo numero di allievi altrimenti mi sarebbe impossibile, per cui tengo solo quelli che mi dimostrano che ci credono davvero e che capisco ambiscono a fare sul serio questo mestiere .

In questi anni ho prodotto moltissimo, ho almeno una dozzina di album già pronti ora spero di trovare i finanziamenti e riuscire a fare uscire il quarto, e ringrazio chi mi sta aiutando proprio in questa cosa, nel frattempo ho cominciato anche a scrivere e comporre per altri interpreti come ad esempio per NORA un’Artista della quale spero sentirete parlare, poi parallelamente sono nate nuove avventure LIVE ad esempio ho rimesso in piedi il mio vecchio Power Duo LE OSSA Batteria , chitarra semibaritona e Voce, dove canto in inglese abbiamo un album pronto in preproduzione che vorremmo registrare in studio entro quest’estate.

Poi sono tra i fondatori di un nuovo progetto Live Elettronico che vorrei presentare però all’estero non in Italia che si chiama “LaKoNkA” del quale si spera di poter uscire con il primo singolo entro quest’estate.

Di recente ho annunciato anche il mio ritorno alla batteria con NUMA ECHOS un’ Artista che mi ha letteralmente conquistato e con la quale stiamo per fare alcune date.

L’attività didattica si è concentrata negli ultimi anni nell’ambito sociale. Cosa ti ha portato a sensibilizzarti nei confronti delle categorie sociali più vulnerabili e a dedicarti a soggetti in cura psichiatrica o portatori di handicap?

Tutto è cominciato seriamente dopo l’incontro avuto con un ragazzo Down del Carlo Sigonio che soffriva di balbuzia estrema, sua mamma le aveva ormai provate tutte, volle provare anche con me.

Per me provarci era materia di studio di approfondimento una nuova occasione per poter sperimentare e spingermi oltre con i miei metodi. Iniziai a seguire corsi di psicodizione privati e informarmi il più possibile sulla materia.

Mi ritrovai ad un certo punto di fronte ad un ragazzino, una persona alla quale certo non puoi starla lì a raccontare, ma semplicemente uno che ti guarda con occhioni dolci che ti chiede aiuto ma che allo stesso tempo ti fa capire anche qualcosa “guarda sono qui per te”.

Nello stesso periodo cominciai sempre più ad appassionarmi alla psicomagia.

Oggi questo ragazzo parla perfettamente, ho risolto da lì in poi una serie di casi complessi come ad esempio “LaFrancy” una ragazza con seri problemi di comunicazione che dopo un percorso con me è riuscita a sbloccarsi con l’ intuizione di alterare il suono della sua voce in quanto il suono originale della sua voce non le piaceva e non sapeva accettarlo.

LaFrancy oggi apre i miei concerti.

Con gli Artisti o aspiranti tali si instaura un legame molto forte .

Red Ronnie di recente mi ha definito così : “Nevruz è l’Artista che piace agli Artisti” e devo dire che mi ci ritrovo moltissimo in questa sua affermazione.

Negli anni hai collaborato con numerosi musicisti e cantautori, anche artisticamente lontani dal tuo mondo. Quali sono le prerogative per una collaborazione?

Semplicemente un incontro di qualità sinonimo di magia per me, se c’è quella prerogativa magica allora tutto può succedere. Non mi limito a collaborare con Artisti che si occupano solo di un genere in particolare … onestamente a me del genere non importa, amo la contaminazione, inoltrarmi anche in viaggi sonori impossibili, amo l’idea di poter portare messaggi utili all’umanità questo è ciò che cerco.

Ti definisci un Alieno messaggero inviato nella terra per azionare un cambiamento. Non pensi che, in una società omologata e passiva, la diversità crei scetticismo e diffidenza?

Mi chiedo onestamente perché diffidare di chi costruisce qualcosa di bello?

Viviamo in un paese che troppo spesso ha dato credito ed arricchito finti Artisti lasciando annegare quelli come me.

Un giorno vidi la foto di un bambino, avrà avuto 3 anni credo, aveva tra le braccia un aeroplanino giocattolo, giaceva a terra ricoperto di polvere e pietre per via di un bombardamento in Siria, questo bambino e’ morto, come lui quanti bambini muoiono così nel mondo?

Quel giorno piansi moltissimo…

Le mie lacrime erano di sangue… se l’essere umano permette queste cose io onestamente non mi considero tale …

Quel giorno Scrissi L’ALIENO con l’intento di dare voce a quel bambino, far si che quel bambino potesse parlare ancora tramite la mia canzone all’umanità con il suo testamento.

Dunque non credo proprio di appartenere a quegli artisti che fanno quello che fanno per i dischi d’oro, la Hit dell’estate o le classifiche.

La musica può rappresentare un mezzo fondamentale per raccontarsi e metabolizzare il dolore, il senso d’inadeguatezza derivante da un contesto circostante che non ci appartiene. Effettivamente ascoltando i tuoi brani si possono percepire il coraggio di denunciare il sistema e un’oscurità che confondi con ritmiche incalzanti, atteggiamenti raggianti. Queste peculiarità apparentemente contrastanti descrivono un conflitto interiore, rappresentano la ricerca di un equilibrio o hanno un’altra valenza?

Ho imparato a dipingere la musica e fare questo non disturba i miei disturbi.

Franz Liszt diceva che la pena e la grandezza sono il destino dell’artista. Pensi che un artista possa evitare il dolore o che esso sia un passaggio obbligato per giungere alla dimensione artistica?

Sicuramente , ma il dolore, lo stare in pena chi più chi meno, fa parte della vita di tutte le persone, l’Artista è fortunato perché è in grado di trasformare il dolore in bellezza, certo che una perenne anima sofferente, è un po’ come assistere ad una tragicomica commedia costante …

Ma non tutte le persone hanno questo dono immenso o il privilegio di scrivere in qualche modo il proprio destino.

Da qualche mese faccio parte di un gruppo privato su whatsapp che hai denominato “Elefanti”, all’Interno del quale sono presenti artisti, musicisti, cantautori etc. Com’è nata l’idea di creare questa chat, quali sono le caratteristiche necessarie per farne parte e quali sono gli obiettivi della stessa?

Da diversi anni sono stato inserito in diverse chat , tra tutti Morgan è colui che mi ha coinvolto di più in questi esperimenti sociali.

L’idea della chat ELEFANTI è nata proprio grazie ad un sogno fatto dopo la festa del suo compleanno, l’idea era mettere insieme i miei amici di tanti anni , tutte le persone speciali che conosco, Artisti , Editori , Autori , musicisti, produttori, Registi, fotografi , scrittori , pittori , organizzatori di eventi, radio, giornalisti, ma anche persone che non lavorano nel settore dello spettacolo ma che credono però fortemente nell’arte.

È una chat nella quale nascono collaborazioni concrete fuori dal virtuale e questo accade attraverso l’interazione fra i membri di questa chat.

Sono nati diversi progetti tra i quali l’idea di creare una PLAYLIST ELEFANTI, una selezione di musica contemporanea di qualità, italiana ed estera, con alcune selezioni storiche.

L’intento è quello di educare i giovani alla Musica ma senza essere demodé. Come si fa a diventare Elefante?

Semplice, devi essere invitato da un’altro elefante e basta dirlo all’amministratore che ti inserisce.

Una nuova carboneria insomma.

Vorrei sapere come vorresti che i tuoi prossimi appuntamenti o progetti influenzassero l’umanità e qual’e’ la tua più grande ambizione.

Sicuramente l’umanità dovrebbe imparare a ragionare di più con la propria testa e non con quella degli influencer, stiamo vivendo un periodo terribile, l’umanità dovrebbe appropriarsi del diritto di pace, credo sia qualcosa per il quale tutti noi intellettuali siamo chiamati a contribuire è fondamentale unirsi fortemente e lottare il più possibile attraverso la realizzazione delle nostre opere, affinché si possano lanciare messaggi di pace, messaggi per fermare l’odio e la guerra. Stop alla guerra subito .

La mia più grande ambizione quella di diventare padre e dimostrare di poter essere il migliore papà al mondo, quello che ogni figlio desidererebbe

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Arte

Atene: ANDREA PINCHI “IL SOGNO DEL MITO QUOTIDIANO” a cura di Giuditta Elettra Lavinia (GEL) Nidiaci, 24 maggio – 21 giugno 2024.

ANDREA PINCHI

Istituto Italiano di Cultura di Atene Patission 47, Atene

Inaugura Venerdì 24 maggio alle ore 18, presso la sede dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene, la mostra personale di Andrea Pinchi dal titolo Il sogno del mito quotidiano, a cura di Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci.

L’esposizione si compone di un corpus di diciotto tele realizzate con pittura acrilica, in alcune delle quali è presente l’inserimento di pelle proveniente da organi musicali antichi. Tale pratica non è nuova nell’opera di Andrea Pinchi: l’artista fa parte di una famiglia di storici produttori di organi musicali. Pinchi, da sempre, si muove in una sostanziale grammatica astratta per la realizzazione delle sue opere, questo nuovo ciclo di lavori tuttavia, realizzati appositamente per la collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Atene, vede la coesistenza, assieme alla consueta dimensione astratta della pittura dell’artista, di alcuni elementi figurativi seppur in modo accennato, quasi stilizzato.

Il filo conduttore della mostra è senz’altro quello dell’esaltazione della dimensione onirica, da sempre strettamente connessa a quella mitologica, ma anche di come questa possa essere applicata al tempo odierno, non solo inteso come contemporaneità, ma anche, in maniera più prosaica ma non per questo diminutiva, come quotidianità, come collettività concepita come  somma delle individualità.

Così scrive la curatrice GEL Nidiaci nel testo critico posto a corredo delle opere: “Il sogno del mito quotidiano di Andrea Pinchi è un ciclo di lavori che rappresenta, in maniera inequivocabile, il punto d’incontro tra un macro tema e un micro tema.

La dimensione macro cosmica e microcosmica si uniscono in una mistura alchemica pittorica senza precedenti, che sottintende e non prescinde un ragionamento di tipo squisitamente deduttivo (inteso come procedimento razionale che fa derivare una certa conclusione da premesse più generiche, dentro cui quella conclusione è implicita). 

La dimensione onirica, che comprende sia l’attività onirica, ovvero il sognare, attività psichica che si esplica durante il sonno, sia l’immagine onirica, ciò che viene sognato, ovvero il contenuto manifesto nel sogno, ha spesso assunto un’apparenza illusoria e irreale nel pensiero greco, ma non soltanto:

Aristotele sosteneva che attraverso i sogni vedessimo delle immagini e queste immagini per Aristotele avevano cause esclusivamente fisiologiche; i sogni dunque non erano altro che tracce della percezione nello stato di veglia, condotte dal sangue fino al cuore e che riaffioravano durante il sonno. 

Con un approccio aristotelico, dunque carico e intriso d’inusuale pragmatismo per un macro tema così espanso e inafferrabile come quello della dimensione onirica, Pinchi, attraverso una narrazione maggiormente prosaica, si avvicina al micro tema del racconto del reale attraverso la rappresentazione di un individuo che sogna semplicemente ciò che vive, trasferendo sulla tela forme attratte che hanno una precisa collocazione e decodificazione, e che non si preoccupano di convivere insieme a forme figurative”.

La mostra sarà visibile fino al 21 giugno prossimo.

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Musicaspettacolo

Festival Internazionale di Musica da Camera

Dominika Zamara

Domenica 12 maggio, alle ore 21:00 si terrà presso Santuario della Madonna del Pianto, Via Madonna del Pianto, 24021 Albino BG, il Concerto che vedrà Impegnati un Duo d’eccezione soprano Dominika Zamara e il Maestro Ennio Cominetti, il Duo di ritorno dal tour in Polonia si esibirà in concerto per le Celebrazioni Mariane. Un viaggio onirico a ritroso nelle epoche passate per riscoprire repertori e compositori che ne hanno fatto la storia di questo filone musicale e senza tralasciare dei risvolti contemporanei.

Un’immersione in una magia sonora creata dal sapiente tocco del Maestro Cominetti e dalla vellutata della Zamara.

Ingresso libero

L’ evento programmato all’interno delle “Settimane Diocesane della Cultura” con il Patrocino del Comune di Albino con la collaborazione di A.Gi.Mus. Lombardia (MI) e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Artistica del M° Donato Giupponi

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